GRAN TOUR DELLE ALPI 2016

dal passo del Brennero al golfo del Quarnaro

 

“Dietro ogni montagna

è nascosto qualcosa,spetta a te trovarlo”

 (R.Kipling)

 

 

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lunedì 11 luglio

Quest’anno il nostro viaggio assume proprio la connotazione della ricerca e della scoperta. Ci aspettano incontri con la natura, la storia, la cultura, valli alpine sconosciute, ascese verso rifugi e cime, zone e paesaggi da rivedere con lo sguardo adulto. Inoltre la diversa dimensione del tempo, propria di chi non ha più impegni professionali, aumenterà il piacere della libertà, già evidente nel vivere plen-air.

La fretta di partire, accentuata dal caldo opprimente già presente di prima mattina, ci fa commettere il primo errore della vacanza. Dimentichiamo in automobile l’atlante geografico dell’Italia settentrionale e le mappe indicative delle tappe del viaggio, che Giuseppe aveva meticolosamente preparato. Per fortuna non tutto è andato perduto, perché qualcosa è sul portatile e soprattutto molto è nella memoria fotografica... e non potrebbe essere che così, del fotografo ufficiale, cioè di Giuseppe!

All’ora di pranzo giungiamo a Firmian, una località poco a nord di Bolzano, dove Reinhold Messner ha ristrutturato un’antica fortezza, trasformandola in un museo della montagna che ha organizzato secondo la sua sensibilità di grande alpinista.

Il castello di Firmian sorge su uno sperone naturale che sovrasta un’ansa del fiume Adige. Reperti archeologici datano l’insediamento umano in questa zona già all’età della pietra. Trovandosi alla confluenza della valle dell’Adige, che scende dal Passo di Resia e di quella dell’Isarco, che scende dal Brennero, la fortezza crebbe in imponenza e importanza nel Medioevo.

Qui si fermò sant’Ulrico nel 923, durante il suo viaggio verso Roma. Nel 1400 si trovarono nella cappella oggi dedicata alle Religioni delle Montagne il calice con cui il Santo celebrò la messa. Nei secoli seguenti il luogo andò in decadenza, perché il controllo del territorio non era più legato ai signori locali e le guerre erano combattute con altre armi e strategie. Entriamo. Il percorso si snoda in senso orario. Strutture di acciaio e vetro rendono fruibili le antiche torri, i camminamenti lungo le mura, le sale e i cortili. Il museo narra il rapporto tra l’uomo e la montagna attraverso l’esposizione di quadri, cimeli, reperti, raccolte di libri e di pensieri di scalatori e pensatori. Interessanti e alcuni molto belli sono i quadri dei neoespressionisti esposti nella Torre Bianca. In particolare ci colpisce una tela sviluppata in verticale, dove le decise e gelide pennellate bianche, blu e nere fanno sentire l’asprezza e la solennità delle pareti rocciose. Questa tela ben si sposa con la frase di Eduard Whynper che leggiamo in un’altra sala: ”Scala pure le montagne che vuoi, ma ricordati che il coraggio e la forza non sono nulla senza la prudenza, e che un attimo di distrazione può distruggere la felicità di una vita. Non avere mai fretta, guarda bene, dove posi il piede e fin dall’inizio pensa quale potrebbe essere la tua fine.” Camminiamo dentro e fuori per quasi due ore, integrando il passato con il presente, la cultura alpina con quella himalayana, i paesaggi riletti e rielaborati artisticamente con le fotografie e la realtà che ci circonda.

Ripreso il camper, proseguiamo verso il Passo della Mendola e ci fermiamo nell’area camper del lago di Caldaro. Qualche goccia sembra voler rinfrescare la torrida giornata. Il grigiore però subito si stempera e un po’ di vento arriva a rendere piacevole la sera.

martedì 12 luglio

Notte calda, ma con gli oblò aperti, l’assenza di zanzare e il totale silenzio ci siamo abbandonati tra le braccia di Morfeo, che ci ha donato un riposo salutare. La luce del mattino e il ticchettio della pioggia sono le note che ci richiamano alla veglia. Riprendiamo il viaggio. La prima tappa della giornata è a Bolzano. Posteggiamo il camper in via Palermo. La scelta non è per rimarcare la nostra italianità. Infatti, i nostri avi avendo vissuto nel Lombardo Veneto ci hanno trasmesso usi e tradizioni più asburgiche che borboniche, ma perché in via Palermo c’è lo stadio della città e dove ci sono gli impianti sportivi, ci sono anche i parcheggi.

Con una camminata di circa mezz’ora raggiungiamo il centro cittadino. Piove intensamente, ma siamo bene equipaggiati. La meta principale di questa sosta è la visita del Museo Archeologico per conoscere di persona Ötzi, l’uomo venuto dal ghiaccio. La nostra curiosità e il nostro entusiasmo si smorzano davanti al portone del museo. Una lunga coda è ferma in attesa di entrare. Ci illudiamo che sia formata da persone che hanno scelto la visita guidata. Paola si mette in coda, mentre Giuseppe entra per informarsi. La delusione dipinta sul suo volto, fa capire a Paola la risposta prima ancora delle sue parole. La coda è reale. L’attesa è calcolata intorno all’ora e mezzo. Considerando che sono già le ore 11.00 e che abbiamo altro in programma, desistiamo. In un viaggio bisogna sempre lasciare qualcosa d’incompiuto, è la scusa per ritornare in quei luoghi. ... ritorneremo Ötzi!

Attraverso le viuzze pedonali racchiuse tra antiche e austeri palazzi, che ospitano empori della tradizione e quelli della moda, raggiungiamo la cattedrale. E’ un edificio in stile gotico in gran parte ricostruito alla fine degli anni ’40, dopo i bombardamenti degli alleati. Quel restauro permise di scoprire sotto la pavimentazione alcune tracce di chiese precedenti. La più antica è paleocristiana, risale al IV secolo ed era consacrata a san Vigilio. Altri frammenti, tra cui una pittura parietale, rivelano la presenza di un’altra chiesa di origine carolingia. Questi reperti sono anche un indizio che datano l’insediamento umano bolzanino nell’alto medioevo. Nel XV e XVI secolo fu poi eretta la chiesa attuale, consacrata a santa Maria Assunta. Essa conserva nella facciata, accanto al rosone gotico, due archi a tutto sesto, tipici dello stile romanico.

Pranziamo sul camper e Paola telefona a Elena, una sua collega che è in vacanza in Val Badia. Si sono promesse reciprocamente un incontro.

Ripartiamo, lasciamo Bolzano e proseguiamo in direzione nord fino alla deviazione verso lo Scillar. La strada sale con ripidi tornanti. Superiamo il limite di altitudine della vite e ci addentriamo nel bosco ceduo di castagni e frassini che diventa, salendo, misto e poi un’odorosa selva di conifere. Superato lo Scillar giungiamo al Passo Pinei a quota 1440 metrie poi con una ripida discesa con tratti del 15% siamo a Ortisei, la regina della Valle Gardena. La salita riprende. Facciamo una breve sosta per qualche fotografia al bel panorama un po’ penalizzato dal cielo scuro e dalle nubi basse.A quota 2180 metri valichiamo il Passo Gardena e ci troviamo in Val Badia. Scendiamo fino a Corvara. Qui incontriamo Elena, conosciamo Alberto suo marito e il mitico Sami, cane di razza english springer spaniel, socievole, giocherellone, rispettoso di chi ha un po’ paura della sua Familia. Riprendiamo il camper un attimo prima di un nuovo e intenso scroscio d’acqua.

La terza e ultima tappa della giornata ci fa salire al Passo di Campolongo. Da qui scendiamo ad Arabba, una frazione del paese, che forse ha il nome più lungo d’Italia: Livinalongo del Col di Lana. Il toponimo ha il suo etimo nella lingua ladina. Livinál significa gola. In effetti, questo comune sparso si estende lungo il corso del torrente Cordevole, che nel tempo ha scavato una lunga, stretta e profonda valle. Il Col di Lana è la cima, il cui possesso è stato cruentemente conteso durante la I guerra mondiale. Sostiamo presso la sua area camper nel bel mezzo di un altro furioso temporale, tanto intenso, quanto breve.

mercoledì 13 luglio

I rovesci temporaleschi hanno bagnato la notte. Ci alziamo con il sole e l’intenzione di fare la passeggiata Viel dal Pan, da Porta Vescovo al Passo Pordoi. E’ un’alta via che si raggiunge da Arabba con una funivia e poi percorre le creste. Il tempo di prepararci è anche quello che accumula nubi nerastre in diverse parti del cielo. Il gestore dell’area camper ci sconsiglia la gita, dicendoci che su quelle creste in caso di temporali, oggi sono probabili, il rischio che si abbattano fulmini è notevole. Ridimensioniamo il nostro programma limitando la gita a mezza giornata e volgendo i nostri passi verso una meta prativa. Saliamo verso l’Alpe Boé, bagnata dal torrente omonimo. Il tracciato inizia con una carrareccia che sale ripida attraverso i prati fino a raggiungere delle malghe. L’erba ancora bagnata dalla pioggia della notte luccica toccata dai raggi del sole e riverbera il suo scintillio sull’abbondante e variopinta fioritura. Raggiunto il bosco, il tracciato diventa un sentiero ondulato che sale e scende, guada qualche rio, che porta acqua ossigenata al Boé. Proprio in prossimità di un ruscelletto, sul culmine di una ripida salita è fermo un ciclista. Aspetta che noi liberiamo il sentiero per godersi l’ebbrezza di un’adrenalinica discesa. Ha per bicicletta una fat bike, le biciclette ora di moda, con le gomme larghe. Ci saluta con l’internazionale hallo, Paola gli risponde con l’italianissimo buongiorno e lui risponde: “buonciorno!”

Dopo un’ora e avendo superato un dislivello di 250 metri arriviamo all’Alpe. E’ l’ora del caffè, giusta pausa ritemprante. Il tempo del riposo è brevissimo, perché le nubi si addensano rapidamente e l’aria umida si raffredda. Torniamo ad Arabba percorrendo la ripida e ghiaiosa strada, che d’inverno è una pista da sci. Dopo due terzi di percorso il temuto acquazzone arriva. Nonostante la giacca impermeabile, giungiamo al camper grondanti .

E’ pomeriggio, la pioggia continua alternando tonanti temporali a momenti di apparente calma, nei quali l’acqua nebulizzata fa rinverdire la vegetazione. Poi finalmente il cielo si apre, occhiate di sole appaiono improvvise tra le nubi, che scorrono rapide da un versante all’altro della valle. Ne approfittiamo per un breve giretto in paese. Visitiamo la piccola chiesa parrocchiale, che ha un bel pulpito. Riforniamo la dispensa di latte e frutta. Al rientro organizziamo la cena in puro stile invernale: minestra di riso con le cotiche e puntine di maiale.

giovedì 14 luglio

Qui ad Arabba è piovuto tutta la notte e in alto è nevicato. Che spettacolo questa mattina! Però sul camper c’è il sole! Dopo l’opportuno ricambio d’acqua, partiamo. Siamo diretti a Digonera, dove ci aspetta un’altra gita. Percorriamo la valle seguendo la corrente del Cordevole, che ha intagliato ancor più le rocce e ora scorre in basso in un’oscura forra. La strada scende più lentamente in modo sinuoso, seguendo il profilo dei dossi montuosi. Dove questi si addolciscono in piccoli pianori, sorgono altre frazioni di questo lungo comune. Poi con qualche tornante raggiungiamo la frazione di Pieve, che è la più grande e ospita la sede del comune.

Poco sotto Pieve svoltiamo a destra e percorriamo la ripida strada provinciale tutta a tornanti fino a raggiungere il fondo valle. Oltrepassiamo il torrente Cordevole e giungiamo a Digonera. Alla fine del piccolo borgo posteggiamo e ci prepariamo per la gita. Nel cielo, che era prevalentemente sereno, giunge qualche nube grigiastra. Temiamo un’altra lavata. Un anziano del luogo ci rassicura, dicendoci che, dopo la neve, il tempo si mette al bello. Ci fidiamo ciecamente e ci incamminiamo senza portare le giacche impermeabili. Meno peso, minore fatica!

La meta è il Pian Col da Daut, una postazione militare della Grande Guerra. Il luogo è stato individuato dal generale Cadorna, perché da lassù con l’artiglieria si potevano tenere sotto tiro la Tagliata Ruaz e il Forte La Corte, da quelle postazioni gli austriaci impedivano agli italiani di occupare il sud Tirolo, scendendo dal Passo Pordoi. Nel 1916 è stata costruita la mulattiera. Essa risale il dosso montuoso con una continua salita del 10%. Il suo fondo è sassoso, ma le asperità del pietrisco sono mitigate da un sottile, eppure morbido strato di aghi d’abete. Con ampi tornanti si guadagna quota. La mulattiera è celata nella fustaia. Le conifere si slanciano esili verso l’alto creando con i loro rami un fitto intreccio, che impedisce alla luce di penetrare e al sottobosco di svilupparsi.

Un lieve venticello s’insinua dal basso tra i nudi tronchi e ci rinfresca. I passi si susseguono interrotti solo da brevi pause. Essi ci fanno superare in un’ora e mezzo il dislivello di 350 metri. Là in alto troviamo delle gallerie, scavate nella roccia. Entriamo, si diramano in diversi cunicoli, che si aprono sulla valle. Le aperture più piccole erano le postazioni dei cannoni italiani. Tira un’aria gelida. Immaginiamo la sofferenza dei soldati, mandati quassù a combattere senza conoscere e comprendere le ragioni di tanta carneficina. L’uomo moderno era ritornato a essere un uomo delle caverne per la follia di chi credeva di poter conquistare il potere sul mondo. Mentre due coppie di anziani, che abbiamo raggiunto e superato in salita, si apprestano a fare il pic-nic, noi dopo esserci dissetati giriamo i tacchi e iniziamo la discesa, che ci vede camminare più spediti. Lungo la strada incrociamo due graziosi animaletti. Il primo è uno scoiattolo, che attraversa di corsa la mulattiera e si arrampica lungo il tronco del primo abete che incontra, mimetizzandosi. L’altro è un’arvicola, un piccolo topolino grigio, che con un sommesso squittio si nasconde dentro un ciuffo d’erba.

Raggiunta Digonera, pranziamo nel suo unico bar con un panino e una Coca Cola. Poi riprendiamo il camper. Risalendo verso la statale ci fermiamo per visitare il Sacrario Pian di Salesei. Qui sono sepolte le spoglie di 5400 militari di entrambi gli schieramenti, caduti in questa zona durante la I guerra mondiale. Di tutte le salme ben 4700 sono ignote e sono sepolte nella piccola cappella ai lati dell’altare, le altre sono allineate ordinatamente in singoli loculi nel piazzale antistante la chiesetta. Nel libro delle visite scriviamo una breve preghiera invocando la pace per tutto il mondo.

Riprendiamo il camper e scendiamo fino a Caprile e da qui saliamo a Malga Ciapela, dove ci fermiamo nel campeggio Romantic Village. Sono le ore 17.00, abbiamo il tempo di fare il primo bucato. Viva la lavatrice e l’asciugatrice! Il venticello gelido rende tersa l’aria e roseo il tramonto, che fa da sfondo alle tremule betulle.

venerdì 15 luglio

Malga Ciapela sorge in una valle pensile formata da quella che fu una lingua del ghiaccio della Marmolada. Si presenta come un pianoro erboso, che si estende sopra la gola del Serrai di Sottoguda, formata dal torrente Pettorina, fino ai piedi della nuova soglia del ghiacciaio. Il sole del mattino ci invita a salire in alto.

Con la funivia raggiungiamo il Rifugio Serauta a quota 2950 metri. Da lì si gode da una parte di un’ampia visione panoramica sul ghiacciaio della Marmolada, la cui estensione è molto ridotta e sulla valle di Antermoia, dall’altra sulla Val Pettorina. Lo spettacolo delle Dolomiti è davvero unico al mondo. Il fondale marino, mosso dalle forze endogene della crosta, con un lavoro durato milioni di anni, è stato spinto in alto e ora, con le sue creste e le sue guglie aspre e intagliate, graffia il cielo.

Tira un vento gelido, ma questa meraviglia merita un po’ di tempo per essere ammirata, letta e ricordata. Le ghiaiose conoidi di deiezione ai piedi delle pareti raccontano la fragilità delle rocce, che formano queste straordinarie montagne. I licheni e la prima erba, che iniziano a ricoprire le nude rocce levigate dal ghiacciaio sono testimoni del cambiamento climatico in atto. Sono passati ben quindici milioni di anni dall’ultima glaciazione! Sulla forcella, ai piedi dell’ultimo strappo, che porta a Punta Rocca, la cima della Marmolada, un cippo commemorativo e un cannone ci portano indietro nel tempo e ci ricordano che i fanti del presidio di quella forcella conquistata dopo un anno di aspri combattimenti furono sterminati dagli austriaci. Queste bianche cime, le cui pareti riverberano di rosso, quando sono baciate dal sole, per anni si sono tinte col rosso del sangue di tanti uomini, della stessa terra, che pur avendo culture e lingue diverse, italiano, ladino, tedesco, vivevano pacificamente condividendo la semplice vita agro-pastorale, ritrovandosi insieme a scalare quelle vette e a trascorrere lieti momenti legati da alcune comuni tradizioni. Visitiamo il museo più alto d’Europa, Il Marmolada Grande Guerra. Esso è presente presso la stazione della funivia. Il percorso assomiglia a una trincea. Attraverso stretti corridoi si vive la storia della I guerra mondiale. I pannelli esplicativi, i monitor con i filmati d’epoca, le vetrinette con esposti i materiali bellici, le divise, gli attrezzi per scavare le trincee e le gallerie, i generi di prima necessità e gli oggetti personali dei soldati, le attrezzature mediche, gli sci, i ramponi, le ciaspole e gli scarponi, le lettere scritte nel dolore di tanta sofferenza, ma colme di rassicurazioni inviate dai soldati, le cartoline scritte dai parenti, piene di trepidazione di padri e madri, fidanzate e spose e ricche di amor patrio e d’incoscienza scritte dai fratelli più giovani rimasti a casa, tutto ci parla di una verità che non si leggerà mai nei libri di storia. Troviamo molto interessante la ricostruzione della città di ghiaccio. Un ingegnere tedesco sotto il ghiacciaio della Marmolada aveva fatto costruire, secondo un suo progetto, una città. Sfruttando la profondità dei crepacci, studiando la glaciologia e la nivologia, aveva fatto scavare camere per gli alloggiamenti, depositi, un’infermeria e perfino una cappella, dove il cappellano celebrava la messa. Per orientare i soldati in movimento i vari camminamenti erano segnati con dei nomi. Il grande vantaggio era che i soldati potevano spostarsi da una postazione all’altra senza essere visti dal nemico e senza essere sotto tiro. La temperatura di zero gradi centigradi era comunque più elevata rispetto a quella esterna.

Rientriamo al camper per le ore 13.00. Dopo pranzo intraprendiamo un’altra escursione. Percorriamo verso valle il Parco Naturale Serrai di Sottoguda. E’ la profonda forra fluviale, che il torrente Pettorina ha scavato dopo aver superato la soglia glaciale di quello che ora è il pianoro di Malga Ciapela. L’acqua ha fretta di scendere a valle. Scorre tra i sassi rumoreggiando. Alcuni flutti saltano tra una roccia e l’altra in una gara di corsa inarrestabile. La strada che segue il torrente accompagnandolo in ogni sua ansa era quella che una volta i malgari seguivano per condurre il bestiame ai pascoli estivi. E’ stata poi utilizzata come strada militare per portare armi e rifornimenti in altura, durante la I guerra mondiale.

Oggi è pedonale, perché la strada veicolare è stata tagliata molto più in alto. Pareti alte anche 100 metri stringono in una morsa il percorso, scrigno di un’abbondante biodiversità. E’ incredibile vedere alte conifere abbarbicate su cigli rocciosi. Ci chiediamo con quale forza le loro radici si siano spinte dentro le fenditure e con quali stratagemmi biochimici riescano a recuperare le sostanze necessarie alla loro crescita. Improvvisamente sullo sfondo di una strettoia appare una cascata, è la Franzei. Tre balzi con altezze in progressione portano un flutto d’acqua al torrente sottostante. Lo scontro tra le gocce che scorrono e quelle che cadono genera un vortice che vaporizza. Esso illuminato dal sole dipinge l’arcobaleno. Più avanti una larga parete è lucida e ambrata. Sembra una lastra di rame. E’ la cascata chiamata Cattedrale, esprime la sua massima magnificenza in inverno, quando si veste di un gelido drappo azzurro, tanto amato dagli ice climber. Lungo la strada non mancano i luoghi religiosi. Una piccola cappella intitolata a sant’Antonio abate era la meta dei pastori che imploravano la protezione per la loro unica fonte di vita. Ora in questa cappella si venera sant’Antonio da Padova. Più avanti una parte presenta molteplici grotte, generate dal carsismo.

In quella più alta è stata collocata nel 2009 la statua della Madonna di Lourdes. Questa statua è l’ultima di una serie di statue, che dal 1838 si sono succedute, perché via via andavano in rovina. Quasi al termine del percorso vediamo due gallerie. Sono state costruite durante la Grande Guerra come deposito per gli esplosivi e poi utilizzate dalla popolazione durante il secondo conflitto mondiale come rifugio antiaereo. Ritorniamo a Malga Ciapela con il trenino gommato del Parco.

sabato 16 luglio

“Non tirava un alito di vento, il cielo era tutto sereno”. Invece oggi di aliti di vento ne tirano parecchi, però la limpidezza del cielo ci carica di aspettative per la gita che stiamo per intraprendere. La meta è il Rifugio Falier a quota 2100 metri. Esso sorge alla base della parete sud della Marmolada, ben 650 metri più in alto rispetto al campeggio. Fino all’agriturismo Malga Ciapela la strada è carrozzabile, asfaltata, aperta solo ai mezzi muniti di permesso. Passato il ponticello di legno, diventa pedonale e prosegue con un fondo di grosso pietrisco non consolidato e reso accidentato dalle forti piogge dei primi giorni di questa settimana. Essa sale rapidamente con brevi e stretti tornanti.

Aiutandoci con i bastoncini, adeguiamo il passo alla salita. Abbiamo il sole alle spalle, solo qualche raggio ci raggiunge filtrando tra il fogliame del bosco misto. All’inizio di un lungo rettilineo, che si presenta come un piano inclinato, un cartello segna alla nostra destra un ripido sentiero. C’è scritto: “scorciatoia per Rifugio Falier”.

Breve sosta per decidere se seguire la carrareccia spacca piedi o deviare sulla scorciatoia spacca gambe. Un rapido sguardo sulla carta topografica per escursionisti e la decisione è presa. Il sentiero della scorciatoia è immerso nel bosco di abeti e larici, che ha colonizzato il dosso roccioso. Si sale a gradoni. Meno faticosi sono quelli determinati dalle nodose radici delle fustaie, più alti sono quelli intagliati nella roccia. Una passerella di legno con corda fissa agevola il superamento di un punto difficile. Si sale ancora. Siamo sovrastati dalle imponenti e maestose pareti del Massiccio della Marmolada. Esse si alzano verticali verso il cielo, sono scudi grandi e lisci, separati tra loro da profonde incisioni, stretti canaloni, che non illuminati dal sole, creano un incantevole gioco di luce e ombra.

Siamo già abbastanza in alto, il bosco si dirada e lascia spazio a un sottobosco più ricco di essenze floreali. Un rumore improvviso di acqua scrosciante richiama la nostra attenzione. Intravediamo una piccola diga sbarrare il torrente, che stiamo seguendo da vicino nella nostra ascesa. Ancora un piccolo strappo ed ecco che, mentre il sentiero continua con una leggera curva a sinistra, a destra un cancelletto aperto con l’insegna ENEL conduce alla diga.

Ci sembra di essere entrati nell’Eden. Il torrente con una serie di cascatelle scende cantando e sparge la sua acqua cristallina in un minuscolo laghetto. La sosta è doverosa e qui le fotografie oltre a essere rivolte al paesaggio sono anche per noi. L’acqua è talmente invitante che prima di riprendere il cammino la raccogliamo nella borraccia e ci dissetiamo. Con un’altra impennata ci immettiamo sulla carrareccia e raggiungiamo la Malga Ombretta, che vende latticini di propria produzione. Bene, al ritorno sarà un nostro punto sosta. Ora il tracciato prosegue semipiano verso il fondo della valle. Sul pianoro erboso placide mucche brucano l’ispida e aromatica erba. Sulla strada numerosi insetti vivono la loro quotidianità. Bellissimo è il gruppo di farfalle dalle ali pervinca. Vicine le une alle altre sembrano formare una corolla. Ecco, finalmente vediamo la meta. Il Rifugio Falier è là in alto ai piedi della parete principale della Marmolada, quella che porta alla sua cima più alta. La carrareccia diventa un sentiero, che s’inerpica secco. Ci sono ancora 170 metri di dislivello da superare. La stanchezza inizia a farsi sentire. La meta vicina è un grande incentivo per non arrendersi.

Arriviamo. Uno sguardo al panorama. Poi mentre ci sediamo sulla panca a riprendere fiato, squilla il cellulare di Paola. Sono i primi auguri che riceviamo per il nostro anniversario di nozze. Ce li fa Daniele anche a nome di Mara e di Niccolò. E’ ora di pranzo. Entriamo nel rifugio. Mentre saliva, il cuore di Paola le diceva, saggiamente, di essere troppo piccolo per portare in alto tanti ...anta chili, ora davanti alla carta dei piatti succulenti è l’istinto della pancia che ha il sopravvento. Paola ordina polenta e funghi con formaggio fuso, Giuseppe polenta e funghi con salsiccia. Il gustoso pranzetto è anche il modo per festeggiare il nostro anniversario.

Durante il ritorno sostiamo a Malga Ombretta e acquistiamo una fetta di toma stagionata, poi scendiamo seguendo la carrareccia per salvaguardare le articolazioni delle ginocchia e delle caviglie. A metà pomeriggio siamo di nuovo in campeggio. Ci sono nuovi equipaggi. La scrittura del diario, il riordino delle fotografie, la programmazione delle prossime giornate occupano il tempo fino all’ora di cena.

domenica 17 luglio

Al suono della sveglia ci alziamo. Oggi è giorno di trasferimento, però questa mattina parteciperemo alla messa domenicale. Qui a Malga Ciapela ci sono solo alberghi e residence, oltre al campeggio. Sul sito della diocesi di Belluno abbiamo letto che a Rocca Pietore, il primo paese che s’incontra scendendo a valle, la messa è alle ore 10.00. Il gestore del campeggio ci dice che all’inizio del paese c’è un parcheggio. Perfetto. Ci muoviamo per tempo e verso le 9.30 siamo a Rocca Pietore. Il parcheggio non è molto grande, ci sono già diverse automobili parcheggiate, il camper proprio non ci sta. Proseguiamo verso valle. A Caprile c’eravamo fermati per fare la spesa e lì la messa è alle ore 11.00. Ahinoi anche nel parcheggio di Caprile non c’è posto. Ci sono già quattro camper e un po’ di automobili messe in modo tale che il nostro camper non riesce a infilarsi. Allora proseguiamo verso valle.

Ad Alleghe c’è un’area camper e la messa è alle 10.30. Prima di giungere al paese riusciamo a rifornire il mezzo di gasolio e a cambiare una delle bombole di gas, quella che era quasi esaurita alla partenza. Posteggiamo il camper nell’area attrezzata, ci incamminiamo lungo la pedonale che costeggia il lago, raggiungiamo il centro e partecipiamo alla santa messa nella parrocchiale consacrata a San Biagio. Interessante è la chiave di lettura che il sacerdote dà del brano del Vangelo. Esso narra della visita di Gesù a Marta e Maria e delle rimostranze di Marta nei confronti di sua sorella, che non la aiutava nel servizio domestico. Il sacerdote dice che entrambe sono accoglienti nei confronti di Gesù, ma che Marta rischia di perdere il senso del tanto fare. Il rischio che sta correndo Marta è anche il nostro. Richiama quindi i fedeli a trovare nelle proprie giornate il tempo dell’ascolto della Parola, per dare davvero significato al fare quotidiano.

Dopo la messa riforniamo la cambusa, pranziamo e ci indirizziamo verso la meta della giornata. Torniamo indietro di un paio di chilometri fino a Caprile, qui svoltiamo a destra e iniziamo a salire verso il Passo di Staulanza. La strada è piuttosto ripida, è interdetta ai mezzi con portata maggiore di 3,5 tonnellate. Noi non abbiamo questo problema, perché siamo certamente sotto il nostro peso massimo consentito. Transitiamo dal paese di Selva di Cadore, che è in festa. Vediamo sulla piazzetta delle donne che indossano il costume tradizionale e il piccolo mercato lungo l’arteria principale. Proseguiamo lungo la Val Fiorentina. Dopo una breve sosta per una fotografia, con sei tornanti a 1773 metri valichiamo il passo. Anche la discesa è scandita da una serie di tornanti. Il passo è un punto di spartiacque. Ora stiamo percorrendo la Val Cellina sul cui fondo scorre il Rio Canedo. All’inizio della valle sorge Longarone, che ha di fronte la diga del Vajont. Nel paese c’è lo stabilimento della Veneta Cucine. Ecco dove è nata la nostra cucina! Seguiamo le indicazioni stradali, passiamo il ponte sul Piave, iniziamo a salire verso la diga. Transitiamo in una serie di strette gallerie regolamentate da un semaforo che garantisce il senso unico alternato. Passiamo dalla regione Veneto e la sua provincia di Belluno, alla regione Friuli Venezia Giulia e la sua provincia di Pordenone. Il primo paese che incontriamo è Erto. Lo conosciamo di fama. Qui è nato e risiede lo scultore, alpinista, scrittore Mauro Corona. Abbiamo letto molti suoi libri. Quelli che ci sono piaciuti maggiormente sono i primi. Essi hanno suscitato in noi il desiderio di conoscere questi luoghi, attraverso la passione e la poesia con le quali egli li descrive. Leggendoli si comprende l’importanza che ha il luogo in cui si cresce e la sua cultura nella propria formazione.

Superato Erto, saliamo un po’ e a quota 793 metri, valichiamo il Passo Sant’Osvaldo, quindi dopo una breve discesa giungiamo a Cimolais. A un chilometro dal paese, lungo la strada che porta al Rifugio Pordenone, troviamo il camping Bresin. Qui ci sistemiamo in un grande prato che si presenta come una corte, sul cui perimetro si affacciano gli equipaggi. Il resto del pomeriggio e la sera sono dedicati al riposo.

lunedì 18 luglio

Siamo nelle Dolomiti Friulane la cui montagna simbolo è il Campanile di Val Montanaia. Esso si trova lungo il circo glaciale che chiude la lunga valle. Per raggiungere la sua base bisogna percorrere i dodici chilometri della valle che sale di circa 600 metri fino al Rifugio Pordenone e poi salire di altri 850 metri lungo il ghiaione che sta ai suoi piedi. Per ammirarlo, raggiunto il rifugio, si sale ancora di circa 150 metri fino al belvedere. Il percorso è lungo. Ci alziamo alle ore 7.00 e cinquanta minuti dopo ci mettiamo in cammino. La strada che percorre la valle è bitumata per la maggior parte, altrimenti è bianca. Presenta tratti in leggera salita alternati a strappi, c’è anche, purtroppo, qualche discesa. Purtroppo, perché al ritorno saranno salite. Poco distante dal campeggio, ai bordi della strada, c’è una cappella. Ci fermiamo per un breve momento di preghiera. L’aria frizzante del mattino, i muscoli tonici dopo il riposo notturno, la carica di entusiasmo che ci caratterizza quando iniziamo qualcosa d’impegnativo, fanno sì che la prima ora la camminiamo con una buona media. Superiamo così il tratto iniziale, non particolarmente interessante. Ora la strada s’inoltra nella stretta valle fluviale, scavata dal torrente Cimolai. Esso scorre vivace, salta spumeggiando tra i massi calcarei e si adagia in verdi pozze. Inizia il momento delle fotografie. Dopo un’altra mezz’ora di cammino attraversiamo un torrente tributario del Cimolai. Scende verticalmente da un impervio costone. Raccogliamo la sua acqua nella borraccia e ci dissetiamo. Ora la strada entra in una forra. Alte e nere falesie incombono su di essa. Le rocce della sinistra orografica presentano alte stratificazioni orizzontali, alcune delle quali sono intervallate da strati verticali, detti strati-frana appoggio. Le rocce della destra orografica hanno invece stratificazioni solamente parallele e inclinate. Numerosi sono i buchi e le caverne scavate nel calcare, conseguenza di fenomeni carsici. Il ponte Gotte ci permette di oltrepassare il torrente Cimolai. Si sale. La strada s’immerge in una faggeta. Il sottobosco è rigoglioso e diffonde un intenso profumo di ciclamino. Questi piccoli fiori rosa, dalle scure foglie cuoriformi, fanno capolino ovunque: lungo il ciglio della strada, intorno alle radici dei faggi, vicino ai ceppi degli alberi tagliati, tra il muschio delle zone più umide. L’aria è piuttosto fresca, perché il sole non è ancora sbucato dalle cime, che stanno alla nostra destra. Le creste però iniziano a indorarsi. I piccoli animaletti del bosco sono ancora intorpiditi. Uno scarabeo dalla livrea iridescente dorme sopra una larga foglia di nocciolo.

Arriva in automobile Giovanni, il gestore del campeggio. Si ferma e ci offre un passaggio. Grazie, molto gentile! Lui sta andando velocemente in fondo alla valle perché passerà la giornata ad arrampicarsi su qualche parete. Ci lascia all’ultimo posteggio e ci spiega come salire al belvedere. Lui prosegue a piedi in un’altra direzione. La salita al belvedere è un sentiero che inizialmente è sul ghiaione del circo glaciale. Poi si divide. Un sentiero continua sul ghiaione e arriva alla base del campanile di Val Montanaia, l’altro s’inerpica sul versante destro del ghiaione, entra nella faggeta e porta al belvedere. Noi seguiamo quest’ultimo. Improvvisamente vediamo brillare nel bosco due occhi. L’animale è un piccolo capriolo, che ci fissa per un istante come pietrificato poi, rapidamente, si muove, con le sue sottili e agili zampe fa rapidi balzi e si allontana, lasciando dietro di sé l’eco delle foglie secche smosse.

Arriviamo al primo Belvedere. Lì, incontriamo una giovane coppia d’inglesi. Ci accolgono con un’esclamazione: beautiful! Stanno già fotografando. Anche Giuseppe inizia il reportage. Il Campanile di Val Montanaia è una colonna di roccia alta 300 metri. E’ chiamato campanile perché ha un basamento quadrato con il lato di 8 metri, più in alto ha la struttura della torre e termina con una cuspide. E’ stato scalato per la prima volta nel 1902. Oggi è oggetto di numerose ascensioni da parte di esperti scalatori. Proseguiamo il cammino e arriviamo al secondo belvedere, che ci consente di ammirare ancora la bellezza di quella torre di roccia. Poi ritorniamo al parcheggio, da qui risaliamo da un’altra parte il ghiaione fino al Rifugio Pordenone.

Siamo solo a un’altitudine di 1200 metri, ma il paesaggio è squisitamente alpino. Pranziamo con un tagliere di salumi e formaggi locali. Poi intraprendiamo la strada del ritorno. La prima parte ce la godiamo. La valle selvaggia lì in alto è aperta. Dalle fenditure delle montagne scendono a precipizio rivoli d’acqua, che nel tempo hanno trasportato a valle una quantità immensa di materiale detritico. Il vallone di San Lorenzo è particolarmente vasto. Oggi è completamente asciutto. Giovanni, questa mattina, ci ha detto che diventa pericoloso e non guadabile quando il tempo è inclemente. Alle sue spalle il Cadin di Elmi, il Cadin di Toro e il Cadin di Verdocia illuminati dal sole mettono in risalto le loro rugosità e asperità. Più in basso troviamola Malga Pian Piagnon. Si trova sulla soglia che separa la parte di valle di origine glaciale da quella fluviale. Proseguiamo. Ecco il punto dove ci ha caricato Giovanni. Avevamo percorso tre quarti di strada. Ora i piedi iniziano a protestare. I passi rallentano, ma alla fine arriviamo in campeggio. Abbiamo camminato complessivamente per venti chilometri. Ci sediamo stanchi, eppure felici, pronti a raccontare subito ai nostri figli e ai nostri amici questa bellissima gita.

martedì 19 luglio

Alle ore 16.30 di trentanove anni fa, con la mitica Diane 6 di Giuseppe, noi novelli sposi siamo entrati, esattamente come oggi, nel campeggio Olimpia di Cortina. Ieri con una piccola canadese. Oggi con il confortevole camper. Il trasferimento da Cimolais a Cortina è caratterizzato da tappe interessanti. Da Cimolais torniamo indietro. Rivalichiamo il Passo di Sant’Osvaldo e arriviamo a Erto. Ci fermiamo per visitare il vecchio borgo semiabbandonato dopo il disastro del Vajont.

Posteggiamo il camper nel paese nuovo e poi scendendo alcune rampe di scale siamo nella sua parte antica. Le case di pietra grigia sono abbarbicate sul pendio del vallone, a monte della diga. Esse si affacciano su strette viuzze acciottolate. Il silenzio è rotto dal chiocciare, che proviene da qualche angusto pollaio, ritagliato nei piccoli cortili, vicino a curati orti. Le case abitate hanno gli usci e le finestrelle addobbati. Alcuni edifici sono in ristrutturazione, molti sono abbandonati e cadenti.

Anche Erto è stata colpita dall’onda generata dalla frana del Monte Toc. Insieme a Casso e ad altre loro frazioni piange 347 morti. Nel cuore del borgo la chiesa si erge bianca ed elegante con il suo slanciato campanile, che puntualmente batte le ore. E’ chiusa. Sul cartello turistico, che ha accanto, leggiamo che è dedicata a Sant’Antonio da Padova e che è stata edificata nel XVII secolo e ristrutturata circa trent’anni fa. Seguiamo un viottolo che si allunga verso valle. Giungiamo al cimitero e poco oltre troviamo una chiesetta. Anche questa è chiusa. Il cartello informativo dice che è consacrata a San Rocco, patrono dei macellai e protettore contro la peste. Questo tempio sorge lungo l’antica via Fulvia romana. E’ stato edificato nel XVII secolo come ringraziamento perché Erto non era stata toccata dalla peste del seicento. Un miracolo si è ripetuto per questa chiesetta nella notte della tragedia del Vajont.

L’onda assassina si è fermata a pochi centimetri dall’edificio. La chiesetta conserva al suo interno un Crocefisso ligneo, che è portato in processione il venerdì santo, quando nei viottoli del paese è commemorata la Passione di Gesù. La chiesetta è aperta solo due giorni all’anno: la domenica delle palme, per la distribuzione degli ulivi benedetti e il 16 agosto, giorno di San Rocco. Torniamo sui nostri passi percorrendo altri vicoli. Su una casa posta all’incrocio di tre viottoli c’è una scritta. “Allo stivalle vendita lichuori e vino”. Paola non ci pensa due volte. Col cellulare fotografa la tremenda insegna e la invia scherzosamente a due sue amiche, insegnanti di lettere.

Arrivati nuovamente al camper, riconosciamo seduto al bar Julia lo scrittore Mauro Corona. La barba incolta, i grigi capelli seminascosti dalla bandana, i piccoli occhi, che sembrano intagliati nel viso, lo rendono inconfondibile. Noi tra i diversi libri che abbiamo portato da leggere abbiamo la sua ultima opera “La via del sole”. La prendiamo e un po’ timidamente ci avviciniamo con il libro e una penna in mano e gli chiediamo l’autografo. Ci accoglie con un sorriso dicendoci: “Che bello vedere delle persone che stanno bene insieme.” Poi ci dice che per lui è un onore e un piacere autografare un suo libro, quindi lo prende, estrae dalla camicia un pennarello e con pochi tratti disegna il suo autoritratto, intinge l’indice nella tazzina del caffè, ormai vuota, raccoglie una goccia dal fondo e dà un po’ di colore al disegno, scrive una dedica ben augurale e appone la sua firma dicendoci che quando sarà morto con questo libro potremo comprarci una casa! Noi lo ringraziamo per la gentilezza, ma l’incontro non finisce qui. Infatti, ci apre il suo cuore confidandoci alcuni tempi bui e difficili della sua vita e ci congeda dicendoci di godere del bene che ci vogliamo e del tempo che ci rimane da vivere. Che incontro emozionante! Che persona profonda abbiamo conosciuto!

Partiamo e poco dopo sostiamo al parcheggio camper della diga del Vajont. Conosciamo questa tragedia perché l’abbiamo vissuta in prima persona. Allora nel lontano 9 ottobre 1963 avevamo dieci anni. Sebbene la televisione fosse arrivata in Italia già da nove anni, nelle nostre case non c’era. All’ora di cena, alle 19.30, tutta la famiglia doveva zittirsi per ascoltare il giornale radio. La notizia del giorno riguardava alla partita di calcio Real Madrid – Celtic. Che cosa accadde alle ore 22.39 di quella sera, ce lo dissero le nostre mamme il mattino seguente, prima di andare a scuola, perché erano certe che i nostri maestri ne avrebbero parlato in classe.

Infatti, così è stato. I nostri maestri sono arrivati in classe con il quotidiano di massima diffusione e ci hanno mostrato la devastazione. Una grossa frana si era staccata dal Monte Toc ed era precipitata nel lago artificiale del Vajont. Un’onda, alta duecento metri, aveva scavalcato la diga, che ha retto l’urto e una colata di acqua e fango aveva in pochi minuti cancellato interi paesi e ucciso duemila persone. Poi ci hanno fatto raccogliere in un momento di preghiera. E’ un ricordo indelebile, che deve essere trasmesso alle generazioni future. Crescendo, abbiamo compreso gli sporchi interessi che hanno portato a quella tragedia. La S.A.D.E. Società Adriatica di Elettricità aveva voluto costruire la diga più alta d’Europa, creando un invaso, là dove già la saggezza popolare negava l’opportunità. Infatti, sulla sinistra orografica del torrente Vajont incombeva il Monte Toc, che in dialetto significa frana. Ciò nonostante gli alti dirigenti della società, i geologi corrotti, che hanno fatto valutazioni fasulle relative alla stabilità della montagna, pavidi ingegneri e opportunità politiche hanno fatto realizzare la diga e riempire l’invaso. L’acqua del lago, imbevendo la base del terreno instabile, ha accentuato lo scivolamento già in atto del dorso della montagna. Oggi nell’invaso c’è una collina formata dalla parte di montagna franata. E’ ricoperta da un bosco che attinge acqua dal torrente. La diga sbarra ancora la valle, ma dalla sua bocca esce il fiotto del Vajont che procede verso il Piave percorrendo una profonda forra. Accanto alla diga c’è una cappella. In origine lì doveva sorgere una chiesetta dedicata a Sant’Antonio da Padova. Essa doveva sostituire quella del paese di Colombèr, che sarebbe stato sommerso dalle acque del lago. Quella chiesetta non fu mai edificata, perché la tragedia venne prima. Questa cappella di cemento a vista è stata costruita come memoriale. Ci colpiscono i nomi dei bambini, dei ragazzi e dei nascituri morti. Essi sono scritti su delle bandierine colorate lungo la pedonale che porta alla cappella.

Nel pomeriggio scendiamo al Piave, lo attraversiamo e ci indirizziamo verso Cortina. Alla reception, quando chiedono a Giuseppe se conosce già il campeggio e lui risponde che eravamo stati trentanove anni fa, la signora risponde: “Ah, però!” Poi ci chiede se ci ricordiamo di lei. Che pretesa... gli anni sono passati per tutti! La piazzuola che scegliamo è immersa nella pineta, in una posizione tranquilla.

mercoledì 20 luglio

Cortina non poteva essere ignorata dal nostro itinerario. Adagiata nella splendida conca ampezzana, circondata da svettanti montagne colorate del giallo e del rosso della dolomia e del grigio e dell’azzurro del calcare, Cortina, pur essendo una località “alla moda” conserva ancora l’edilizia di pietre e legno e le tradizioni che rivelano la sua antica origine. Non è raro incontrare donne che indossano il costume tradizionale e sentire parlare il dialetto ampezzano, che ha origini ladine. Questa mattina con la navetta del campeggio raggiungiamo il centro del paese. Con noi viaggia una coppia di anziani coniugi. Nel breve tragitto familiarizziamo. Vengono da Siena, anche loro sono in camper. Ci dicono che hanno festeggiato ben cinquantotto anni di matrimonio e che, data l’età, ora fanno vacanze stanziali. Allora noi abbiamo ancora tante “camperate” da fare! Passeggiamo nella zona pedonale e ci fermiamo in una libreria, acquistiamo la carta topografica per escursionisti della zona. Nel pomeriggio, per non impigrirci troppo nella giornata di riposo, superiamo un dislivello di 300 metri fino al lago Ghedina. Una bella rampa tagliata in un bosco di abeti e larici, che qua e là lasciano vedere come in una cornice il Pomagagnon, la possente montagna che si erge alla sinistra del torrente Boite. La salita è interrotta da un audio e da una fotografia che la nonna Marinella ci ha inviato di Niccolò. Il nostro pesciolino si sta godendo il mare e ci racconta che si diverte con le biglie. In un’ora siamo al lago, un piccolo e verde specchio trasparente nel quale guizzano numerose e grosse trote, che fanno venire l’acquolina in bocca a Giuseppe. Dalla sua riva con un breve filmato e due fotografie rispondiamo a Niccolò. Poi torniamo in campeggio e iniziamo a programmare i prossimi giorni.

giovedì 21 luglio

Da Cortina ad Auronzo, via Misurina, questo il trasferimento odierno. Salite e discese del 12% ci fanno ricordare le numerose ascese dei passi valicati lo scorso anno. Queste strade sono però ampie e non si snodano a precipizio sui burroni. Certo anch’esse richiedono attenzione nella guida; Giuseppe le affronta con grande perizia. Transitiamo dal lago di Misurina nella tarda mattinata. E’ già preso d’assalto da frotte di turisti. Noi non ci fermiamo perché, se il tempo lo permetterà, le previsioni non sono rosee, saremo lì nei prossimi giorni. Ad Auronzo sostiamo nell’area camper, carissima se si considera che non fornisce l’energia elettrica e che indipendentemente dal tempo di sosta costa 18.00 euro da versare in moneta, ...altro problema!

Per fortuna il bar vicino all’area ha un gestore gentilissimo. Egli senza problemi ci cambia in moneta sonante la banconota che gli porgiamo e commenta in modo sarcastico le scelte del comune. La sosta ad Auronzo è dettata da un altro incontro, quello con Elena una collega di Paola. Elena è coetanea dell’altra Elena incontrata a Corvara. E’ stata anche sua compagna di classe al liceo e ora si sono ritrovate, dopo percorsi universitari diversi, a insegnare nella medesima scuola. Nelle prime ore del pomeriggio Elena arriva al camper. Due chiacchiere e poi ci muoviamo per una facile passeggiata. Da esperta del luogo, osservando il cielo nerastro che avvolge le Tre Cime di Lavaredo e il vento che scende verso valle, ci consiglia di munirci dell’ombrello. Suggerimento molto oculato. Infatti, appena attraversato il ponte coperto sul torrente Ansiei inizia a piovere. Qualche grossa goccia ci suggerisce di entrare nel bar del parco giochi. Subito dopo si abbatte un furioso temporale. Ritorna il sole. Noi riprendiamo la passeggiata. Percorriamo la ciclopedonale lungo il lato destro del torrente e giungiamo al lago artificiale, di un bel colore verde smeraldo.

Poco prima della diga attraverso un altro ponte passiamo sull’altra riva. Iniziamo la strada di ritorno. Elena ci fa vedere la chiesetta della Madonna delle Grazie edificata nel XVIII secolo. Essa è detta chiesetta del gallo, perché al vertice della cupola, sopra la croce c’è un gallo di ferro che ricorda una leggenda. Elena ce la racconta. Tanti anni fa bisognava stabilire il confine tra i comuni di Auronzo e di Dobbiaco. Tra loro c’era una disputa su chi dovesse includere nel proprio territorio il lago di Misurina. La diatriba fu risolta in questo modo. Due donnette dovevano partire al canto del gallo, ognuna dal suo paese. Il punto del loro incontro sarebbe stato il limite territoriale dei due comuni. Si narra che la donnetta di Auronzo, mentre sferuzzava, abbia punto inavvertitamente con il ferro da maglia il gallo. Così si è incamminata prima di quella di Dobbiaco e ha raggiunto il lago prima della rivale. Ciò spiega la grande estensione in lunghezza del comune di Auronzo. Elena ci ha poi ospitato nella sua casa. Abbiamo conosciuto la sua mamma, sua suocera, il simpaticissimo figlio Alessandro e la nipotina Martina. Poi Elena ci ha riaccompagnato al ponte di legno coperto. Terminiamo il pomeriggio inviando al gruppo Whats App foto e saluti.

venerdì 22 luglio

Il temporale di ieri sera ha messo in discussione il nostro programma per i prossimi giorni. Il bello del camper è proprio quello di poter decidere dove andare e cosa fare giorno dopo giorno. Ci alziamo alle ore 8.00 e subito volgiamo lo sguardo verso le Tre Cime di Lavaredo, la zona che ci piacerebbe raggiungere, e da dove arriva il tempo peggiore, così ci ha detto ieri Elena. Nubi nere avvolgono le Cime, mentre altre come un fiume bianco e denso scendono verso il lago, lambendo a mezza costa le montagne. Prendiamo tempo, perché le previsioni assicurano assenza di pioggia fino a metà pomeriggio. Giuseppe acquista il pane, governiamo il camper. Intanto il cielo si schiarisce, il nero si dissolve, il fiume bianco si esaurisce. Bene! La giornata può essere vissuta come da programma! Partiamo e arriviamo a Misurina. Posteggiamo nell’area camper e qui incontriamo il vigile di Auronzo, che aveva girato tra i camper per vedere se tutti erano stati onesti. Giuseppe scambia qualche parola con lui e scopre che ad Auronzo è possibile posteggiare il camper per un massimo di quattro ore nel parcheggio del cimitero, mentre qui a Misurina si può stare nell’area camper fino a un massimo di quarantotto ore. Noi paghiamo per un giorno. Paola prepara i panini. Due sono le gite che possiamo fare. Una è al Monte Piana e l’altra è il giro delle Tre Cime di Lavaredo.

Decidiamo di andare al Monte Piana, perché unisce al contenuto naturalistico quello storico. Il Monte Piana è alto 2325 metri. Sembra un grande “panettone”. La sua importanza sta nel fatto che dalla sua cima si ha la visione su diverse valli, quindi è stato un punto strategico durante la Grande Guerra, dove contava controllare a vista i movimenti dei battaglioni nemici. Con una jeep saliamo lungo la vecchia strada militare fino al Rifugio Bosi, che si trova a 2205 metri. Qui inizia la nostra escursione podistica. Dal rifugio partono diversi sentieri con gradi di difficoltà differenti. Scegliamo di seguire quelli non esposti e privi di ferrate. Saliamo lungo il dorso della montagna e raggiungiamo la sommità dell’altopiano.

Camminiamo su un terreno intriso di sudore, lacrime e sangue. Questa non è retorica, perché qui in alto tra il 1915 e il 1917 sono morti più di quattordicimila soldati di entrambi gli schieramenti. Impressionante è l’intrigo delle trincee. Sono scavate nella roccia e hanno una profondità di circa due metri. Alcune le osserviamo dall’alto e le scavalchiamo passando su passerelle di legno, alcune le percorriamo. Sono angusti cunicoli, allora freddi, sassosi e rumorosi, oggi addolciti dall’erba e dai fiori che spontaneamente crescono tra i sassi.

Ci piacciono i non ti scordar di me. Questi fiorellini azzurri invitano al rispetto del luogo e ne indicano la sacralità. Lungo le trincee ci sono degli slarghi, che erano i depositi del materiale bellico e le camere per il riposo dei combattenti. Ci sono anche delle gallerie, antri bui che penetrano nel sottosuolo unendo una trincea all’altra per spingersi fino alle postazioni di tiro. Il sentiero storico ha delle indicazioni che fanno comprendere meglio le posizioni delle truppe italiane e quelle austroungariche. Su un cartello leggiamo che la galleria d’attacco era stata scavata a una profondità di 19 metri ed era lunga 97 metri. Le postazioni delle vedette e i reticolati a protezione delle trincee più avanzate danno l’idea delle crudeltà qui perpetrate.

Numerosi cippi e croci ricordano il sacrificio di valorosi soldati e battaglioni. Una sella chiamata Forcella dei Castrati collega il Monte Piana con il Monte Piano, che ha la stessa conformazione geologica ed è stato attrezzato e difeso dai Kaiserjäger, un battaglione austriaco. Camminiamo tanto, su e giù per i sentieri, i camminamenti e le trincee e arriviamo alla Croce di Dobbiaco, il punto più distante dal rifugio. Lo sguardo spazia a 360° sul panorama bellissimo. Intorno a noi vediamo alte pareti verticali che raggiungono cime frastagliate, guglie acuminate ai cui piedi sono presenti immensi ghiaioni, piccoli nevai che occhieggiano dentro ombrose vallecole, strette fratture e canaloni. Intanto nel cielo iniziano ad arruffarsi un po’ di nuvole, alcune si rabbuiano. Il vento non è più una piacevole e rinfrescante brezza, aumenta la sua intensità, soffia con folate di direzione variabile, porta l’eco di tuoni lontani. Sono già le ore 13.00, ma la minaccia di pioggia imminente ci suggerisce di non pranzare e di dirigerci verso il rifugio. Un momento di pausa del vento è l’attimo che precede la pioggia. Indossiamo le giacche impermeabili e via. Per nostra fortuna piove davvero poco. Dopo un’ora ricompare il sole in mezzo a un cielo ancora grigio. Ci fermiamo sul prato e pranziamo con un gustoso panino e una succosa mela. Al rifugio prendiamo il caffè e riusciamo a salire sulla prima jeep che sta per partire, nonostante la coda di gente. Infatti, la jeep ha ancora due posti liberi e, chi è in attesa, fa parte di gruppi più numerosi e non desidera separarsi dai compagni. La ripida discesa lungo la strada militare ci riempie di sobbalzi.

In quindici minuti siamo di nuovo a Misurina. Arriviamo proprio pochi minuti prima dell’inizio dell’annunciata perturbazione. Rimandiamo la gita alle Tre Cime di Lavaredo a giorni migliori. Domani riprenderemo il viaggio.

sabato 23 luglio

Le mucche di notte dormono? Sparse sul prato vicino all’area camper con i loro campanacci riempiono l’aria di rintocchi stonati. Data l’altitudine, pensiamo che siano ricoverate per la notte, invece con il calare delle tenebre sono ancora al pascolo. Temiamo una notte disturbata. La più nottambula si ferma poco dopo mezzanotte e la più mattiniera si mette in moto intorno alle sette. Le ore di sonno non sono state tantissime, ma il silenzio assoluto le ha rese riposanti. Prima di lasciare l’area camper andiamo al lago. Esso occupa una piccola conca di origine glaciale. Lo scarso ricambio d’acqua e la sua relativa profondità stanno favorendo il suo impaludamento. La zona dove entra il torrentello è già in parte ricoperta dalle piante acquatiche. L’acqua appena increspata riflette i boschi che la circondano e le montagne che la sovrastano. Ogni tanto si vedono saltare fuori dei pesci, il cui tuffo disegna una serie di cerchi concentrici, che si allargano fino a perdersi. Sono quasi le 10.00, è arrivato il vigile per il solito controllo. Sta per scadere il nostro tempo, partiamo e ci indirizziamo verso Dobbiaco.

Arrivati in fondo alla discesa, svoltiamo a destra e dopo qualche chilometro costeggiamo il Lago di Landro. Ci fermiamo per qualche fotografia. Nella torbida acqua del lago, che ha un colore verde oliva, una nidiata di germani sta trovando la sua autonomia. I piccoli paperini non hanno vicino la loro mamma. Mentre nuotano si fanno coraggio reciprocamente emettendo continui pigolii. Sulla riva opposta incombono le pareti del Monte Piano. Lassù, dove terminano, si vede la croce. Ieri Giuseppe aveva visto il lago sporgendosi dalla croce, Paola no, perché guardare da un precipizio, le dà fastidio. Ripartiamo. A Dobbiaco iniziamo a percorrere la Val Pusteria in direzione Brunico. Mentre nella direzione opposta il traffico è da bollino nero, nella nostra direzione si guida bene. Ci fermiamo a Rasun di Sotto, al campeggio Corones.

Alla reception troviamo ancora il signor Prugger, che avevamo conosciuto un quarto di secolo fa. Ci assegna una comoda piazzuola nel centro del camping. Il cielo è grigio e minaccioso. Andiamo subito in paese per prendere nota dell’orario della messa. Appena rientrati inizia a piovere. Gli scrosci si alternano a pause durante le quali i ragazzi e i bambini dei diversi equipaggi escono a giocare. Per noi il pomeriggio diventa un tempo di totale riposo. Ci dedichiamo alla lettura e a qualche passatempo. domenica 24 luglio Il riposo iniziato ieri pomeriggio continua per tutta la giornata odierna. Ci alziamo tardi. Partecipiamo alla santa messa in italiano. L’anziano sacerdote, la cui madre lingua è il tedesco, fatica a leggere il messale in italiano. Durante la predica non commenta il vangelo, ma parla del Santo del giorno. San Cristoforo è il protettore dei viaggiatori, quindi anche di tutti i presenti. Infatti, essendo la Val Pusteria germanofona, le persone presenti a questa messa sono tutti turisti. Il sacerdote dice che alla fine della messa benedirà i mezzi che ci trasportano da un luogo all’altro, però ci ammonisce dicendo che il traghettamento più importante è quello dalla vita terrena a quella eterna. E’ là la nostra meta, è in quella direzione che bisogna volgere lo sguardo e indirizzare i nostri passi. Il pranzetto è semplice e gustoso: casunzei ampezzani, frutta e una fettina di strudel ai frutti di bosco. Dopo pranzo Paola telefona alla sua figlioccia Noemi, che oggi compie otto anni e li festeggia con la sua famiglia in un rifugio a 2000 metri. Dopo il Gran Premio di Ungheria, che ha visto ancora una volta la supremazia della Mercedes, usciamo a fare quattro passi. Il classico “” per le vie del paese e rientriamo poco prima che la pioggia si intensifichi.

lunedì 25 luglio

Ci alziamo presto perché, prima di partire, vogliamo fare un po’ di spesa. Il primo negozio in cui entriamo è il fornaio. E’ ancora come lo ricordavamo. Il buon profumo di pane appena sfornato ci inebria. Semmel, Brezel, filoni di pane francese, pagnotte di pane nero, bocconcini di grano duro sono ordinatamente raccolti dentro le ceste o allineati sugli scaffali di legno. Il bancone ha ancora una parte refrigerata, grandi vassoi contengono fette di torte di svariati tipi. Sacher, torta alle fragole, strudel alle mele e ai frutti di bosco, torta di noci, bomboloni e altro ben di Dio fanno venire l’acquolina in bocca al primo sguardo. Ricordiamo che nostro figlio Simone, da bambino, stampava sul vetro il suo viso furbetto e goloso, pregustando qualcosa di tanta bontà. Spesso lo abbiamo accontentato. Chiediamo alla signora che ci sta servendo se possiamo fotografare la vetrina per inviare lo scatto a nostro figlio. “” ci risponde con il suo stentato italiano. Poi ci chiede quanti anni ha nostro figlio e ci congeda augurandoci una buona vacanza. Il secondo negozio che visitiamo è la Metzgerei, la macelleria. Acquistiamo un po’ di carne. Mentre stiamo per pagare il conto di 8.00 euro, vediamo gli Knödel. Chiediamo di aggiungere alla spesa una confezione. Il macellaio li mette nella borsa e a voce alta dice: “”. L’italiano lo sa davvero poco, ma sa contare bene!

Partiamo da Rasun, scendiamo a Brunico. Poco prima di entrare in città deviamo a destra ed entriamo nella Valle Aurina. E’ una lunghissima valle chiusa da un anfiteatro glaciale, tra le cui cime spicca la Vetta d’Italia, che è il punto più settentrionale del nostro stivale. La valle si presenta con il classico profilo a U. I suoi pianori sono coltivati con il mais, le patate ed erbai. Il torrente Aurino che la percorre ha un ampio letto, è ricco di acqua e una notevole corrente. La strada sopporta un discreto traffico, anche camionale, dovuto alle fabbriche presenti nei primi paesi. Man mano che risaliamo la valle vediamo come sia stata modellata da una lenta ritirata del ghiacciaio che l’ha formata. Attraverso delle soglie, che si presentano come strette forre, si passa da un pianoro all’altro. Alcuni imponenti castelli la dominano. Purtroppo non troviamo la possibilità di posteggiare, là dove lo scorcio meriterebbe la fotografia. Il torrente ora ha un letto più stretto. Corre verso valle formando rapide e cateratte.

Dopo quaranta chilometri arriviamo a Casere. Qui la strada carrozzabile termina in un grande parcheggio a pagamento. Posteggiamo il camper e ci prepariamo per la gita. Proseguiamo a piedi la risalita della valle. Inizialmente la strada è ancora asfaltata. Dopo qualche centinaio di metri deviamo per raggiungere una chiesetta, che con il suo candore e il suo prismatico campanile dal tetto rosso, spicca nel verde che la circonda. La stradicciola, che porta alla chiesa è un Calvario. Le stazioni della Via Crucis sono intagliate dentro dei tronchi. La chiesetta è stata edificata con l’abside appoggiato a due grossi massi erratici, per essere protetta dalle valanghe. E’ stata consacrata allo Spirito Santo dal vescovo conte di Bressanone Niccolò Cusano, nel 1455. Al suo interno, sopra il portone ci sono tre statue ognuna delle quali rappresenta una persona della Trinità. Cosa stranissima, infatti, di solito lo Spirito Santo è rappresentato sotto forma di colomba. A sinistra dell’altare c’è un Crocefisso, che ha nel corpo dei fori di pallottola. La leggenda narra, di un blasfemo contadino che lo usò come bersaglio e che pagò con la vita tale oltraggio. Le pareti portano le tracce degli affreschi che in origine la decoravano. Dopo un momento di raccoglimento, riprendiamo il cammino.

Ora la strada è una carrareccia bianca dal fondo ben consolidato. Ci addentriamo nella valle. Siamo accompagnati dal fragore dell’Aurino, dal letto sempre più stretto e dall’acqua ancor più saltellante. Innumerevoli rivoli scendono lungo i versanti. Essi nascono lassù, dove noi non vediamo, dai tanti nevai incastonati tra le rocce. Quando raggiungono il margine del precipizio, con bianche cascate scendono, poi nel bosco e nel prato erodono il tenero humus, raggiungono la roccia sottostante, la scavano e si creano il letto. Raggiunto il pianoro, dove scorre l’Aurino, alcuni prima di donargli la propria acqua, formano stagni e pozze. In una pozza troviamo delle oche bianche e screziate. Paola dimentica di essere ormai in pensione, si china e raccoglie penne e piume in grande quantità. Le darà a chi le subentra, serviranno per il laboratorio sugli uccelli. Lungo il cammino troviamo alcune malghe trasformate in luoghi di ristoro, altre sono invece rimaste come masi. La strada a tratti è chiusa da cancelli di legno che servono per non fare sconfinare il bestiame dei diversi alpeggi. Mucche pezzate, brune, dal pellame bianco vivono la loro giornata chi brucando, chi inerpicandosi tra i cespugli alla ricerca di cibo più gustoso. Molte sono sazie e sono accovacciate a ruminare. Qualcuna dorme, una lecca con insistenza il dorso di un’altra. Un piccolo vitello sobbalza perché ha il singhiozzo. La strada ora ha degli strappi che ci fanno salire di quota.

Ci fermiamo alla Malga Kehren, che sta ai piedi del sentiero che sale molto ripido verso la Vetta d’Italia, che non si vede perché è immersa nelle nuvole. Sostiamo e pranziamo con un panino allo speck.

Al momento di pagare ci coglie il panico. Non abbiamo il portafoglio! Già ci immaginiamo bardati con il grembiulone blu, tipico dell’Alto Adige, chini sul lavello a governare pentole, piatti e bicchieri per ore. La padrona della malga è invece gentilissima, ci dice che può capitare. Non vuole avere né il nostro nome, né il nostro riferimento telefonico. Ci dice di lasciare i 15.00 euro della nostra consumazione al bar del Berghotel che c’è a Casere. Imbarazzatissimi ringraziamo e iniziamo la strada del ritorno. Giunti al camper provvediamo subito a saldare il debito, lasciamo anche il biglietto del nostro sito con un caloroso ringraziamento.

Le previsioni meteorologiche davano pioggia dalle ore 16.00. Si sono sbagliate di poco. Con un ritardo di dieci minuti arriva la precipitazione. Siamo all’asciutto sul camper. Guardiamo il posteggio che, minuto dopo minuto, si svuota. Arrivano tre camper. Qui passiamo la notte nell’isolamento e nel silenzio.

martedì 26 luglio

Ci alziamo prima che il posteggio si riempia. C’è un bel sole, che fa brillare come diamanti i prati ancora bagnati dalla ormai consueta pioggia serotina. Le cime dei monti del circo glaciale sono anche questa mattina avvolte in un diffuso grigiore che le nasconde. Partiamo. Percorriamo a ritroso la Valle Aurina.

Giunti a Brunico, ci immettiamo nella Val Pusteria in direzione di San Candido. A Monguelfo facciamo una sosta. Lasciamo il camper in un parcheggio in prossimità del Rienza e con una brevissima camminata arriviamo nel cuore del paese. Accanto alla chiesa dall’interno barocco, c’è un bel tabernacolo gotico tutto affrescato. Ripreso il camper, poco prima di Dobbiaco, svoltiamo a destra e saliamo verso il lago di Braies. La delusione è in agguato.

Giunti alla meta, troviamo il parcheggio destinato ai camper e ai pullman tutto occupato, prevalentemente da automobili. La solita inciviltà italiana. Proseguiamo verso altri parcheggi per trovare la possibilità di invertire il senso di marcia. Più avanti in prossimità di una rotatoria un gentile carabiniere ci dice che di posti non ce ne sono. Dice di tornare indietro all’inizio della valle e di risalire utilizzando la navetta gratuita. Ringraziamo, toniamo indietro, rinunciamo al lago, perché l’opzione proposta ci occuperebbe tutta la giornata. Il pranzo lo facciamo a San Candido, fermandoci in una stradina periferica, dove sono in sosta anche altri camper. Poi riprendiamo il viaggio verso il confine con l’Austria. Con grande stupore passiamo da uno stato all’altro senza alcun controllo. Viva l’Europa unita!

Il passaggio da una nazione all’altra è anche geografico. Ora la valle è percorsa dal fiume Drava, affluente del Danubio. A Lienz ci fermiamo. Alla reception del camping Falken, Paola sfoggia un po’ del suo tedesco. Il gestore, circa suo coetaneo, le risponde in italiano e le chiede: “?”. Ci assegna un’ampia piazzuola ombreggiata da due grossi aceri. Il cielo si è rannuvolato, gli echi di tuoni lontani rimbombano nell’aria. Prendiamo gli ombrelli e andiamo in città. Venti minuti ci separano dal centro. La città è viva. Tanti turisti affollano le sue vie pedonali e sostano nei locali. Non ci sono particolari palazzi e scorci caratteristici, tuttavia nel suo insieme si presenta carina. Visitiamo il duomo gotico. Intanto è arrivato il temporale. Ritorniamo in campeggio, avendo fatto anche oggi le nostre due ore di camminata.

mercoledì 27

luglio E’ arrivato il giorno della prima pedalata. Il cielo è ambiguo. Grandi nubi bianche e spumose si muovono veloci verso valle, inframmezzate da squarci di azzurro. Volgerà al bello o al temporale? Nel dubbio portiamo con noi le giacche impermeabili. Caschetto in testa e via. Seguiamo delle vie secondarie, che passano attraverso il piccolo quartiere residenziale che sorge accanto al campeggio e raggiungiamo la Radweg, la ciclabile del fiume Drava, Drau in tedesco. Essa è ben segnata con cartelli verdi riportanti il simbolo della bicicletta e la scritta R1. Abbiamo deciso di seguire il corso della corrente, così da pedalare su un falsopiano discendente.

La ciclabile segue il fiume, che pur avendo la sua sorgente solo cinquanta chilometri indietro, della sua giovinezza conserva la veloce corrente, mentre il suo letto è già quello di un fiume maturo. Prendiamo subito un buon ritmo. Il percorso è immerso nel verde ed è ingentilito da bordure di fiori selvatici. In alcuni tratti passa nel bosco, in altri costeggia prati e campi coltivati a mais. Alcuni cicloturisti, dalla gamba molto più allenata della nostra, ci sorpassano. Un saluto e sono già lontani. Incrociamo persone che pedalano nel senso opposto. Anche con loro scambiamo un cenno di saluto. Dal basso le Dolomiti di Lienz sono meno spettacolari delle nostre. Le creste rocciose e le guglie si vedono appena. Su alcuni speroni sorgono antichi manieri.

Dopo venti chilometri siamo a Oberdrauburg e un tuono improvviso scuote l’aria, mentre da un canalone scende una coltre nera. Proseguiamo. Raggiungiamo e superiamo una famiglia di cicloturisti. Il papà tira il carrellino che ospita un bimbetto. Seguono due bambine di circa cinque e sette anni, chiude la fila la mamma che tira un carrellino con tutto il necessario per una vacanza itinerante. Poco dopo ci raggiungono, perché è iniziato a piovere e noi ci siamo fermati per indossare le giacche impermeabili. Anche loro si fermano per la stessa operazione. Li salutiamo e ci riavviamo. L’ultimo tratto che percorriamo è più impegnativo. La ciclabile sale sul dorso della montagna per superare dei valloni. C’era da aspettarselo, visto che il prossimo paese si chiama Berg, cioè monte! Abbiamo percorso trentasei chilometri. Andiamo alla stazione e attendiamo il treno che ci riporterà a Lienz in circa mezz’ora. Alla biglietteria automatica, che dà informazioni anche in italiano, acquistiamo i biglietti per noi e per le biciclette. Saliamo sul treno dalla porta contrassegnata col simbolo bicicletta. Ci sono già alcune mountain bike. Addossiamo le nostre bici e troviamo posto. La ferrovia è a binario unico. Le fermate sono annunciate. Alcune sono di minore importanza, per scendere bisogna prenotare la fermata. Altrimenti il treno, dopo aver rallentato per vedere se qualcuno deve salire, riprende la corsa senza fermarsi. Tornati in campeggio, pranziamo e dopo un po’ di riposo, anche se continua a piovere andiamo in città. Un salutare giretto per sciogliere i muscoli.

giovedì 28 luglio

Perché la parte d’Europa dell’arco alpino orientale è così verde? Se avevamo dei dubbi, troviamo la definitiva risposta. Per la pioggia frequente, che anche questa mattina scende lieve e continua. Oggi ci aspettano le più alte montagne dell’Austria con il rinomato Grossglockner. Da Lienz risaliamo per un breve tratto il corso del fiume Drava, poi deviamo nella valle dell’Isel, che è un suo affluente, grande apportatore di acqua. E’ una verde valle alpina, abitata da piccoli villaggi dalle belle chiesette con i campanili che terminano a cipolla o con cuspidi acuminate. Anche questa strada, come tutte quelle percorse finora, è tenuta bene. Ha un ottimo asfalto ed è pulita. L’educazione civica di questo popolo è anche stimolata da cartelloni presenti sulle strade. Lungo l’arteria leggiamo: “Ich bin B10, keine Müllplatz”, (io sono la B10, non una discarica). I ripidi versanti ricoperti di boschi in alto hanno pianori sui quali si scorgono delle malghe. In fondo alla valle si stagliano cime innevate, incappucciate e parzialmente coperte dalle nubi. Una confortevole area di sosta ci consente la pausa caffè e la possibilità di documentare con alcune fotografie ciò che vediamo.

A Matrei iniziamo a salire. Siamo nella regione degli Alti Tauri. La strada che stiamo percorrendo, Felbertaunerstrasse, è a pagamento. Dopo pochi chilometri, all’imbocco del tunnel, lungo 5282 metri, c’è il casello del pedaggio. La galleria ci fa transitare sotto uno spartiacque. La valle che percorriamo all’uscita è molto più stretta e ripida. Il torrente forma un piccolo laghetto. Ci fermiamo a fotografarlo. Alcuni pescatori attendono pazientemente che le trote abbocchino. La discesa termina a Mittersill. Qui seguiamo la direzione per Zell am See. Il traffico è intenso, ci avviciniamo a una cittadina di una certa grandezza. La pioggia che per un po’ ha smesso, ora sta riprendendo e le nuvole si abbassano.

A Fusch svoltiamo a destra e riprendiamo a salire, senza riuscire a vedere il paesaggio, perché sempre nascosto dalle nubi. Intravediamo una lingua glaciale e i suoi numerosi rivoli che scendono a balzelloni verso il basso, confluendo in un unico corso. La vegetazione arborea si giova dell’abbondanza d’acqua e si spinge in alto fin dove il clima glielo consente. Diverse sono le tonalità del verde, tra essi si distinguono quello scuro dei pini cembri e quello chiaro dei larici. Il pino cembro è una pianta molto resistente e longeva. Riesce a crescere anche su terreni sfavorevoli e a germogliare in zone isolate, perché la nocciolaia, che si nutre dei suoi pinoli, nasconde i semi per l’inverno. A volte non ritrova i nascondigli, così i semi interrati hanno la possibilità di germogliare e di far crescere una nuova pianta. Il larice ha morbidi aghi raccolti in rosette, che esigono molta luce. Per questo motivo esso può raggiungere ragguardevoli altezze e in autunno, dopo essersi colorato di giallo oro, perde le sue foglie.

Anche la strada per il Grossglockner è a pagamento. La salita diventa impegnativa. A ogni tornante si sale di circa cinquanta metri. Ci immergiamo sempre più nelle nubi e la pioggia diventa più fitta. Superiamo diversi ciclisti che temerariamente e con fatica stanno salendo. Pensiamo ai rischi che affronteranno in discesa, tenuto conto che la strada è protetta solo da paracarri di granito. Dopo undici tornanti sostiamo per il pranzo nel parcheggio della Haus Alpine Naturschau. Poi percorriamo ancora un po’ di tornanti in salita.

A 2500 metri iniziamo quelli in discesa. Più di trenta tornanti e la pendenza del 12% hanno riportato Giuseppe indietro di un anno,facendogli riaffiorare nitidamente il ricordo dei numerosi passi delle Alpi Occidentali. Il giro nel Parco Nazionale degli Alti Tauri lo chiudiamo con il ritorno a Lienz. Ripercorriamo col camper un tratto di strada che ieri abbiamo pedalato sulla ciclabile. A Oberdrauburg facciamo il pieno di gasolio, pagando il carburante circa trenta centesimi in meno al litro rispetto al prezzo italiano. Passiamo alla destra del Drava e iniziamo a salire verso il Passo Monte Croce Comelico, che fa da confine con L’Italia. Ora il tempo è in miglioramento.

Al confine una breve sosta ci permette di cogliere la desolazione di questa frontiera. Gli uffici doganali sono in uno stato di completo abbandono. La caserma è chiusa, solo la bandiera italiana ravviva il luogo. Un ristorante e un negozietto di souvenir, made in China, languono in attesa di qualche cliente. La discesa dalla parte italiana è più difficoltosa. Le prime curve dei tornanti sono in gallerie piuttosto strette, non illuminate e con rocce a vista. Un colpo di clacson ci aiuta a far sapere del nostro ingombro. E’ terminata la discesa. Sono le ore 17.00, dobbiamo individuare il luogo per fermarci a dormire. Alcune indicazioni recuperate sul sito Camper on line ci danno diverse possibilità. La prima indica un’area a Timau, una frazione di Paluzza. Arriviamo. L’area cercata è solo un parcheggio lungo la strada. Non ci sembra opportuno fermarci. Proseguiamo fino a Arta Terme. Il navigatore ci fa scendere al parcheggio delle terme, ma qui non c’è l’area di sosta, che invece è indicata in cima a un’erta, presso il campo sportivo. Chi l’ha pensata lassù? Certamente qualcuno che non ha mai guidato un camper! Torniamo un po’ indietro e giriamo in direzione di Ravascletto, dove è indicato anche un campeggio. L’avventura non è finita. Infatti, saliamo fino al paese e lo attraversiamo passando nella sua stretta via principale e alla fine ci troviamo in un cantiere stradale con la strada aperta solo ai frontisti. Dall’alto vediamo che sul versante opposto della valle c’è il campeggio. Invertiamo il senso di marcia, scendiamo ed eccoci al camping "Pace Alpina". Finalmente anche per noi è pace. Abbiamo trovato un posto sicuro per la notte. Posteggiamo il camper su una terrazza, che guarda la valle. Il tempo è diventato bello. Il profilo scuro delle Alpi Carniche si staglia contro il cielo azzurro.

venerdì 29 luglio

La 2Pace Alpina" è interrotta bruscamente alle ore 6.00 dalle campane della parrocchiale. Il concerto dura cinque minuti, poi riprendiamo sonno e ci svegliamo al suono della sveglia. Il “paese del sole” non ci tradisce. Oggi su questa bella vallata prealpina è tutto sereno. Partiamo e facciamo la prima sosta a Tolmezzo. Siamo nella zona della Carnia colpita dal forte terremoto del 1976. Due fortissime scosse di magnitudo 6,5 della scala Richter, hanno raso al suolo diversi paesi, provocato ingenti danni e mietuto numerose vittime. Questo tragico e luttuoso evento non ha però piegato lo spirito indomito e la forza di volontà di questa popolazione. Posteggiamo il camper in un ampio parcheggio, che troviamo per caso a poco più di un chilometro dal centro. Il cammino che facciamo per raggiungere il cuore della cittadina è lungo la ciclopedonale costruita sulla massicciata di una vecchia ferrovia.

Tolmezzo si presenta quasi completamente ricostruita. Il suo centro che era caratterizzato da vie porticate ha mantenuto la sua identità. Alcuni portici sono stati restaurati, altri sono stati ricostruiti con materiali moderni, ma con un’estetica antica. Entriamo nel duomo. Si sta celebrando la messa, è il momento della consacrazione. Adoriamo il miracolo di Cristo, che ci dona la redenzione e ci comunichiamo. Ripartiamo in direzione di Tarvisio. Transitiamo da Amaro, uno dei paesi completamente distrutti da quelle famigerate scosse sismiche. La strada segue il corso del Tagliamento, che impressiona per la larghezza del suo letto. Il fiume ha un bel colore turchese.

Poco dopo Moggio, svoltiamo a destra lungo la Val Resia, percorsa dal torrente omonimo, dall’acqua trasparente dai riflessi ambrati. Siamo nel Parco Naturale delle Prealpi Giulie, che comprende anche la Valle Uccea, le cui frazioni con quelle della Val Resia formano il comune di Resia. Il Parco comprende anche altri comuni per un’estensione di 100 chilometri quadrati.

Ci ha suggerito la visita di questa valle Carlo, un ragazzo di Udine, che ha giocato a rugby con i nostri figli. La Val Resia si presenta per un lungo tratto piuttosto pianeggiante. Raggiunto un bivio, a destra prosegue verso la Slovenia, a sinistra inizia a salire. La valle è selvaggia e poco popolata. Attraversiamo piccole frazioni e giungiamo a Prato Resia, dove ha sede il comune e dove c’è la sede del Parco. Posteggiamo in un ampio parcheggio e pranziamo. Alle ore 14.00 raggiungiamo il centro visite. Ci accoglie una giovane operatrice, gentile, simpatica, ben preparata e carina e questo non guasta, dice Giuseppe. Ci introduce alla visita del centro e si rende disponibile per eventuali chiarimenti. Il centro visite di questo parco naturale è uno dei più belli tra quelli finora visitati. E’ organizzato su due piani e ha diorami e dispositivi interattivi. La visita inizia con la descrizione della geografia fisica del Parco.

Siamo in una valle chiusa dal circo glaciale del Monte Canin e lateralmente dalla catena dei Monti Musi e dal Massiccio Plaurus. Sono montagne cenozoiche, che si sono corrugate durante l’orogenesi alpino himalayana. La zona è interessata da un clima molto umido, in media riceve 3000 millilitri di pioggia l’anno. Essa favorisce la crescita della vegetazione sia in quantità, sia in biodiversità. L’acqua agisce sulle rocce calcaree, porta in soluzione il carbonato di calcio e genera il fenomeno del carsismo. Si formano inghiottitoi, che si prolungano in profondità. L’acqua scava strette gallerie verticali, che possono raggiungere anche centinaia di metri. Quando incontra uno strato impermeabile, inizia a fluire in senso orizzontale. Se trova dei pertugi, il suo gocciolamento genera la formazione di stalattiti, stalagmiti e colonne. Quando lo strato impermeabile affiora in superficie, l’acqua riemerge, a volte formando cascate denominate fontanoni.

La visita prosegue nel piano inferiore. Qui è descritta la biodiversità, che è abbondante, perché il Parco è la zona d’incontro delle aree geografiche: alpina, mediterranea e illirica. Il simbolo del Parco è la coturnice. Esso è un uccello dal corpo tozzo, la coda corta e le ali lunghe. Variopinta è la sua livrea. Presenta il ventre giallastro, le zampe e il becco rosso, la gola, le guance e la parte anteriore del corpo, bianche, esse sono contornate da una marcata fascia nera, che risale fino alla fronte. Il resto del piumaggio è in prevalenza grigio-azzurro. La particolarità della coturnice però è il canto. Il maschio lo usa per delimitare il territorio e per richiamare la femmina. E’ un uccello stanziale, vive sui pendii soleggiati, pietrosi, con scarsa vegetazione arborea e arbustiva. Le zone erbacee si trovano in altura e sono i pascoli per le mandrie che salgono in alpeggio. Altre zone prative sono state create dall’uomo con il taglio del bosco ceduo, in genere faggete, e coltivate secondo l’agricoltura tradizionale. Lo spopolamento e l’abbandono di tale attività favorisce il rimboschimento di questi prati secondari. Più in alto vivono gli abeti bianchi e rossi che ricoprono i versanti delle montagne. Il bosco, i prati, i torrenti, la diversa altitudine, l’esposizione al sole, sono le condizioni di vita di numerose catene alimentari. Gli erbivori invertebrati e vertebrati e di seguito i carnivori di diverso ordine vivono in perfetto equilibrio nell’ecosistema. L’ultimo anello delle catene alimentari è formato dai grandi predatori autoctoni come il grifone e dai nuovi arrivati dalla Slovenia come l’orso bruno e la lince. Particolari sono due vertebrati inferiori. La salamandra dalle macchie gialle è un anfibio velenoso, che con la sua appariscente livrea avverte gli eventuali predatori di non essere commestibile. La biscia dal collare è un rettile non velenoso. In caso di aggressione si difende fingendosi morto. S’immobilizza, apre la bocca e lascia cadere penzoloni la lingua.

Al termine della visita visioniamo un filmato che racconta il rapporto tra l’uomo e il parco. Un malgaro, intento a mescolare la cagliata, si scusa di non interrompere il lavoro, perché dice che andrebbe perduto ciò che finora ha fatto. Racconta che prima del 1996, anno di fondazione del Parco, chi aveva cura del territorio erano proprio le persone come lui. In febbraio durante la festa del carnevale attraverso riti magici la popolazione propiziava una buona stagione estiva. All’inizio dell’estate i malgari raccoglievano il bestiame dalle famiglie e lo portavano in altura. Qui mucche, pecore e capre pascolavano liberamente per alcuni mesi. Le famiglie li congedavano dando loro una benedizione: “Dio protegga prima voi e poi il bestiame.” La vita negli alpeggi era dura perché da giugno a settembre i malgari vivevano isolati. Ora la stessa vita permette maggiori relazioni, perché le malghe sono anche mete degli escursionisti. Una volta la giornata era scandita dal sole. Ci si alzava con le prime luci dell’alba, si mungeva, si lavorava il latte e al calare della sera ci si ritrovava in malga a mangiare il frico, un tortino di polenta e formaggio, e si aspettava la notte raccontandosi le storie della tradizione e le leggende del luogo. Il malgaro del filmato si accommiata raccomandando di stare attenti a bere il latte di malga, perché nell’intestino di noi cittadini potrebbe darci dei seri problemi! Prima di uscire dal centro visite l’operatrice ci invita a visitare la mostra che domani sarà inaugurata e aperta al pubblico. E’ dedicata a Luigi Quaglia, un arrotino della valle, morto da poco. La sua bicicletta con montata la mola è al centro della stanza, mentre sulle pareti dei grandi quadri illustrano il suo lavoro. Intorno alla bicicletta ci sono i ritratti di alcuni anziani del luogo, che sembrano guardare con nostalgia a un tempo che non c’è più.

Poco lontano da Prato, presso la frazione di Lischiazze c’è il Fontanone di Barman. L’operatrice ci indica sulla cartina come raggiungerlo. Ci rassicura circa la percorribilità della strada con il camper e ci dice che all’inizio del sentiero troveremo uno spiazzo sterrato dove potremo posteggiare e fare la manovra d’inversione. Torniamo al camper e partiamo. La strada è stretta, ma ha degli slarghi per i possibili incroci. Viaggiamo senza incontrare nessuno. Lasciamo il camper sullo spiazzo che si trova appena superata la frazione. La passeggiata è breve. La mulattiera inizia salendo dolcemente lungo la valle del torrente Rio Nero in un’umida faggeta costellata di azzurrognoli massi erratici, parzialmente coperti dal muschio. Più avanti la mulattiera diventa sassosa e infine, superato un tavolino da pic-nic, diventa un sentiero che porta sul greto del torrente. Lo scroscio dell’acqua, il canto di diversi uccelli, lo stormire del fogliame mosso dalla sottile bava di vento, si fondono in un armonico suono. Pochi passi tra i sassi del torrente ci portano davanti allo spettacolo della natura. Un fiotto d’acqua salta da un’altezza di circa 70 metri e va a formare delle pozze trasparenti. Giuseppe inizia a fotografare, ma è incuriosito da ciò che è ancora nascosto alla nostra vista. Allora si arrampica ulteriormente sulle rocce della sponda destra e arriva alla base del fontanone. Per quasi venti minuti egli è inghiottito da quella poesia. Paola lo attende e si perde nella biologia del luogo. Bellissimo è il volo del merlo acquaiolo. Egli dal suo nido, situato in un anfratto calcareo della sponda sinistra, si tuffa a picco nella pozza e poi risale al nido, dove ad attenderlo ci sono i suoi piccoli che sporgendo il becco aperto pigolano. Felici, torniamo al camper. Grazie Carlo per il consiglio! La valle che ci hai suggerito di visitare è davvero imperdibile, se si viene da queste parti. La sera e la notte la trascorriamo nel grande parcheggio di Prato come unici ospiti.

sabato 30 luglio

I friulani sono gente che non perde tempo, neppure di sabato. Anche oggi il campanile alle ore 6.00 dà la sveglia, noi rimaniamo a letto per altre due ore. Partiamo e ripercorriamo a ritroso la Valle Resia. Al suo imbocco nel comune di Resiutta ci fermiamo. Qui sono visitabili solo il sabato e la domenica la mostra delle miniere del Rio Resartico e la Ghiacciaia. La miniera della Valle Resia è stata attiva a fasi alterne per motivi economici e per le pause belliche, per quasi un secolo, e ha cessato definitivamente l’attività il 14 novembre 1955. Dalla miniera erano estratti gli scisti bituminosi, che derivavano dal processo di metamorfismo della dolomia, roccia sedimentaria, costituita dai residui algari e di animali benthonici e da carbonato di calcio. La coltivazione mineraria è iniziata nel 1868. I minatori raggiungevano l’imbocco delle gallerie salendo sulla montagna lungo un sentiero in un tempo di circa quarantacinque minuti. Lo sfruttamento minerario e il conseguente esaurimento degli strati più superficiali, ha comportato la discesa a diverse profondità. Le gallerie abbandonate, per evitare che crollassero, erano riempite con il materiale sterile. Ogni galleria era raggiunta da un camino. I livelli scavati sono stati sei. Il ciclo produttivo era continuo, suddiviso in tre turni: dalle ore 6.00 alle 14.00; dalle 14.00 alle 22.00 e dalle 22.00 alle 6.00. I minatori lasciavano la galleria mezz’ora prima della fine del turno per facilitare lo scambio con gli operai del turno successivo. La vita in miniera era dura. I minatori vivevano in baracche costruite all’imbocco delle gallerie. Lì mancava la possibilità di lavarsi completamente e non c’era la lavanderia. Il turno di riposo, che consentiva di tornare al paese per lavarsi, cambiarsi e incontrare i propri cari aveva una cadenza quindicinale. I video che trasmettono le testimonianze di ex minatori ci dicono che anche il cibo era poco calorico. Si consumava minestra di verza, polenta e un po’ di formaggio. Parlare di minatori è generico. Infatti, l’attività di estrazione richiede diverse specializzazioni. Attraverso un altro video conosciamo le diverse professionalità. Il tubista viveva separato dagli altri addetti. Nella sua baracca preparava l’esplosivo. Egli prendeva i tubi di dinamite e inseriva in essi il detonatore. Poi al detonatore attaccava la miccia, una corda lunga qualche metro. Il lavoro richiedeva una grande perizia, perché l’introduzione del detonatore doveva essere tale da permettere lo scoppio solo al momento giusto. Il capo minatore insieme al fuochista entrava in galleria. Essi sistemavano i candelotti di dinamite. Il fuochista accendeva la miccia e il capo minatore dava il segnale di evacuazione. Avvenuta l’esplosione, intervenivano i puntellatori, che avevano il compito di sostenere la galleria puntellandola con le travi di legno, che loro stessi avevano costruito con i tronchi dei faggi della montagna. A questo punto iniziava il lavoro dei trivellatori. Era un lavoro faticoso e rischioso. Faticoso perché l’uso del piccone e delle trivelle richiedeva una grande forza muscolare. Rischioso perché poteva accadere che se non tutta la dinamite era esplosa, lo scoppio tardivo era letale. Staccati i massi dalle pareti e fatti a pezzi intervenivano i cernitori. Il loro lavoro consisteva nello scegliere il materiale buono e nel caricarlo sui carrelli. I carrelli decauville, dal nome del francese Paul Decauville (1846-1922) pioniere delle ferrovie a scartamento ridotto, erano introdotti a spinta dai cernitori. La fuoriuscita dei carrelli carichi era in parte facilitata da una lieve pendenza del 1%. La paga che ogni minatore percepiva era di una lira all’ora, pari al costo di un pacchetto di sigarette popolari. Nei primi anni dell’attività il materiale estratto era venduto come combustibile, ma la quantità eccessiva di cenere che lasciava e la grande produzione di vapori solfidrici, lo resero inutilizzabile. Fu quindi costruito uno stabilimento di trasformazione. Il terremoto del 1976 ha lesionato la costruzione e resa inagibile, quindi purtroppo non si può visitarla, però un cartellone spiega il processo di lavorazione che in esso si svolgeva. Gli scisti passavano nello stabilimento attraverso una tramoggia. Poi erano frantumati dentro dei frantoi fino a una pezzatura di dieci millimetri. Dentro un forno, che raggiungeva una temperatura di 450° C, gli scisti subivano un processo di distillazione. I vapori estratti, condensati, davano l’olio ittiolitico greggio. L’olio greggio subiva una seconda distillazione, che dava come prodotto finale principale l’ittiobenzina. Questi i rapporti in peso: da 1000 kg di scisto si ricavavano 35 kg di greggio e da questo, 12 kg di benzina.

Usciamo dalla mostra, attraversiamo il ponte sul torrente Resia e troviamo sulla sua sponda sinistra l’imboccatura della Galleria Ghiacciaia. Una ventata fresca ci investe. Prima che inventassero i frigoriferi conservare a lungo i prodotti freschi era un problema. Per questo motivo spesso si scavavano nei pavimenti delle cantine delle buche oppure si usavano le grotte naturali. Nel 1844 Francesco Dormisch, considerando le ottime qualità dell’acqua del torrente Resia e il buon refrigerio di questa grotta naturale, decise di aprire qui un birrificio. Gli addetti inizialmente erano una decina. Tra essi, aveva un ruolo insostituibile, il mastro birraio, che aveva il compito di miscelare i diversi tipi di luppolo e di dosare sapientemente il malto. Il primo anno di produzione fruttò 600 hl, nel 1890 se ne produssero 4000 hl. L’apertura del canale Ledra, che porta le acque del Tagliamento a Udine, fece spostare la produzione in città. Il birrificio di Resiutta fu chiuso. Negli anni ’50 il marchio Dormisch fu assorbito dalla Peroni.

Dopo la meritata pausa caffè, riprendiamo il viaggio. Seguiamo per un breve tratto il corso del torrente Fella, poi svoltiamo a destra e ci addentriamo nella Val Raccolana, altra valle suggeritaci da Carlo. Anche questo territorio è piuttosto selvaggio e spopolato. La strada sale lentamente seguendo il torrente, che prende il nome dalla valle. Siamo abituati a trovare paesi che si chiamano , in questa valle troviamo due frazioni che si chiamano . Davvero curioso! In località "Pian de la Sega", presso la trattoria Goriuda posteggiamo il camper. Saliamo per il sentiero, che si apre alla nostra destra e con un’inerpicata di dieci minuti arriviamo al Fontanone di Goriuda.

Spettacolare, ma meno poetico di quello di Barman. Forse la presenza di un certo numero di turisti lo rende meno selvaggio. L’acqua sgorga da una sorgente carsica a 861 metri d’altezza, dopo aver scavato delle grotte con uno sviluppo orizzontale di circa seicento metri. In esse si trovano caverne, sifoni, laghetti. Poi riaffiora e con un balzo verticale di 80 metri precipita in una pozza. L’aria fresca e umida, l’acqua di gocciolamento e quella che percola attraverso le fessure delle rocce sono le condizioni ottimali per lo sviluppo di una rigogliosa vegetazione, che a sua volta è la base alimentare dei laboriosi insetti. Seguendo il sentiero arriviamo sotto il tetto del fontanone e attraverso la trasparenza dell’acqua ammiriamo i colori della pozza, una tavolozza di azzurri e verdi. Il nome del fontanone deriva da una leggenda. Si dice che in questa grotta vivesse un orco di nome Goriuda, appellativo che deriva da Goriuz, i nani delle caverne, così chiamati nelle storie friulane. Tornati al camper, proseguiamo la strada, che salendo a tornanti ci porta a Sella Nevea.

Questo è un villaggio turistico soprattutto sfruttato per gli sport invernali. Pranziamo. L’idea è di occupare il pomeriggio prendendo la bidonvia e di salire al Rifugio Giberti e da qui con un’altra bidonvia di raggiungere Sella Prevada, sul crinale dello spartiacque. Purtroppo improvvisamente il cielo si rannuvola e molte nubi basse avvolgono le cime e iniziano a scendere lungo i canaloni. Desistiamo dal nostro programma, perché non ha senso salire in alto e non poter osservare il panorama. Ripartiamo. La meta è Tarvisio. Scendiamo seguendo un’altra strada, quella che percorre la Valle Rio del Lago. I tornati sono più ampi. Raggiungiamo la riva del lago Predil. Qui facciamo una breve sosta. Osserviamo i “tugnini”, così chiamiamo affettuosamente i bambini tedeschi, che gridano: “Achtung!” e poi si lasciano andare lungo uno scivolo fino a raggiungere l’acqua, tuffandosi con un sonoro splash. Ripreso il camper, arriviamo a Tarvisio e ci sistemiamo nella sua confortevole area camper, che si trova in paese. Ci riposiamo e poi partecipiamo alla messa prefestiva.

domenica 31 luglio

Le previsioni meteorologiche annunciano temporali e intensa pioggia nel pomeriggio. Decidiamo di sfruttare al meglio le ore che precedono la perturbazione. A pochi chilometri da Tarvisio, in direzione di Udine, dal paese di Camporosso di Val Canale, parte una bidonvia che con un’unica tratta supera il dislivello di mille metri e porta al Monte Lussari. Il nostro bidoncino parte a pieno carico. Oltre a noi, ci sono un papà e la sua bambina e due coppie di sloveni, un po’ agitati, quindi irrequieti e sguaiati. Scendiamo dalla bidonvia, siamo a quota 1780 metri. Da quassù si ha un ampio orizzonte circolare sulle Alpi Giulie. Vediamo da vicino le creste rocciose Sella Prevada. Alla loro base resistono alcuni nevai, che scaricano verso valle insieme all’acqua di fusione numerosi detriti. Più lontano una serie di quinte allungano lo sguardo fino a cime ben più elevate e bianche. In valle i paesi, le strade, i torrenti sembrano disegni di un quadro. Sulla vetta del Monte Lussari c’è un santuario mariano. E’ la meta del Cammino Celeste, che inizia dall’isola di Barbana, nella laguna di Grado, passa per Aquileia, supera alcune montagne e raggiunge Camporosso dopo duecentocinque chilometri e da qui sale per un sentiero fino al santuario.

Oggi, giorno del Signore, nel santuario si sta celebrando la santa messa. Il celebrante è un vescovo, è il momento del Gloria. Esso è recitato in italiano, in sloveno e in tedesco. Diciamo una preghiera e ci ritiriamo. Saliamo alla croce, che sta sulla vetta del monte. Qui Giuseppe scatta diversi fotogrammi, gli serviranno per costruire la composizione panoramica. Lì in cima c’è anche un ragazzino, che chiede a Paola se può fargli una fotografia. Lui posterà la sua foto sui social network. E’ l’ora di pranzo. Uno dei ristoranti offre nel menù il frico, il piatto tipico della zona. E’ un tortino di patate o polenta e formaggio cotto al forno.

Ci accomodiamo sulla terrazza panoramica e lo gustiamo. Il pranzo termina con una fetta di strudel di mele e una fetta di crostata ai frutti di bosco, che ci dividiamo. Nonostante le camminate, è certo che anche in queste vacanze non perderemo un grammo!

Ritornati a Camporosso, ci spostiamo di qualche chilometro verso Udine e sostiamo a Malborghetto, un piccolo paese frequentato da Giuseppe per lavoro, perché sede di una centrale di compressione sul metanodotto d’importazione dalla Russia. Non è una sosta nostalgica, anche se a Giuseppe affiorano alcuni ricordi delle trasferte fatte insieme ai suoi colleghi. Malborghetto è un paese davvero carino. Le sue casette sono ben tenute, hanno colori pastello contrastanti tra loro. Il tutto crea un’atmosfera da fiaba, che infonde un senso d’infantile allegria.

Riprendiamo il viaggio. La meta della giornata è la Slovenia. Torniamo indietro fino a Tarvisio e da qui seguiamo le indicazioni che ci indirizzano verso la nostra meta. Non c’è traffico. Ci precede un’utilitaria, il cui guidatore crede di essere da solo sulla strada. Accelera, frena improvvisamente, si ferma senza motivo in mezzo alla carreggiata per osservare qualcosa. Quando finalmente riusciamo a sorpassarlo, Giuseppe dà una strombazzata col clacson, riceve come risposta un gesto poco educato. Transitiamo attraverso la frontiera completamente libera e ci fermiamo a Doje, nel camping Kamne. Lo troviamo lungo la statale. Alle ore 16.00 come previsto arriva il temporale. Poi tutto si acquieta in un grigiore generalizzato.

lunedì 1 agosto

Per recuperare i dati necessari per la compilazione della sua tesi di laurea sperimentale, Paola introduceva i campioni di sangue dei neonati in un prototipo di analyzer, che la Carlo Erba Strumentazioni stava mettendo a punto. La dottoressa che coordinava il lavoro, al venerdì pomeriggio, quando Paola caricava la macchina per il week end, parlava con l’analyzer, lo accarezzava e gli raccomandava di non incepparsi. Sosteneva, che anche le macchine hanno un’anima e che hanno bisogno di incoraggiamenti. Forse non aveva tutti i torti. E’ piovuto tutta la notte e anche questa mattina continua il diluvio. Decidiamo di partire e di spostarci di circa venti chilometri fino al lago di Bled. Il navigatore, programmato all’uopo, forse sente che abbiamo tempo, quindi superata la città di Jesenice, ci fa abbandonare la statale e ci porta in alto con un paio di tornanti.

La deviazione un po’ ci allarma. Non ci piacciono le macchinette che prendono iniziative in modo apparentemente autonomo. Forse stamattina dovevamo farle delle raccomandazioni. Ci fermiamo in una piazzuola e verifichiamo il percorso. La strada indicata è senz’altro più breve. Avrà ragione? Ci fidiamo.

La strada è stretta e tortuosa, l’asfalto è sconnesso, ma l’ambiente che ci circonda è gradevole. Infatti, transitiamo attraverso piccoli borghi immersi tra prati e boschi. Al termine della discesa ci attendono due sgradite sorprese. La strada dove è indicato Bled è chiusa. Un cartello di divieto di circolazione e un cavalletto la sbarrano. Una freccia indica la deviazione. Non possiamo fare altrimenti, seguiamo la freccia che indica la deviazione. Percorsi qualche decina di metri un cartello stradale indica una strettoia: la larghezza massima è di 2,20 metri. Ahinoi! Il camper è largo 2,35 metri. L’unica possibilità che abbiamo è quella di fare inversione, ripercorrere la strada finora fatta fino alla statale.

Torniamo all’antico sistema. Ignorando le proteste del navigatore, consultando la carta stradale della Slovenia 1:200.000 arriviamo a Bled intorno a mezzogiorno. Il campeggio si trova a circa quattro chilometri dal centro. Sorge sul lago lungo il margine sudorientale del Parco Triglav, l’unico Parco Nazionale Sloveno. E’ in atto un grande ricambio di mezzi, ciò ci fa ben sperare nella possibilità di trovare posto. Bled è una località molto rinomata e questo è l’unico campeggio. Ormai non piove più. Alla reception, dopo la registrazione, ci dicono di trovare la piazzuola che preferiamo e poi di segnalare il numero scelto. Giriamo a piedi. Molte piazzuole sono allagate, altre sono molto fangose. Ne troviamo una che è idonea al nostro mezzo. Sta per essere liberata da un equipaggio britannico, che è in partenza.

Nel pomeriggio circumnavighiamo a piedi il lago, lungo la pedonale che lo costeggia. Il lago ha una forma allungata, che deriva dalla sua origine glaciale. Le sue acque tranquille sono abitate da diverse colonie di germani reali e da alcuni cigni. Sono solcate da natanti. Per salvaguardare l’habitat su questo lago non possono navigare barche a motore. In mezzo al lago c’è un’isola, sulla quale sorge una chiesetta. La sua campana suona in continuazione. Dalla parte opposta del campeggio, sopra uno sperone roccioso, si eleva il castello. La passeggiata è piacevole. Il percorso è ombreggiato da possenti ippocastani, da annosi faggi e dalle conifere. In un’ora e mezzo percorriamo gli otto chilometri. Dopo cena, con una telefonata, Daniele ci annuncia che il nuovo nipotino, che sta per arrivare, è un maschio.

Piccolino, sei ancora in divenire, ma sei già da alcuni mesi nei nostri cuori, nelle nostre preghiere e ora, benvenuto nel nostro libro!

martedì 2 agosto

Dopo qualche giorno di tempo sfavorevole, ecco finalmente un risveglio promettente. Organizziamo una giornata intensa e piena di attività. Iniziamo con una sgroppata in bicicletta. Dal campeggio prendiamo la strada che costeggia il lago in senso antiorario e prima di entrare in città, svoltiamo a destra verso il lago Bohjsko Jezero. Scegliamo questo itinerario, perché sulla carta geografica la strada è segnata in verde, segno che è panoramica. Percorre una valle chiusa lunga circa venti chilometri. Ci aspettiamo una strada in leggera salita, magari con qualche strappo e non particolarmente trafficata. Non è proprio così. La strada alterna salite e discese piuttosto ripide, inoltre sopporta un traffico intenso. Poco dopo Bohinjska Bela, decidiamo di desistere dal nostro proposito. Torniamo indietro, entriamo nel paesino di Bohinjska Bela, Giuseppe scatta qualche fotografia e poi torniamo in campeggio. Paola si consola. Una signora ben più giovane di lei, sull’ultima salita, scende dalla bicicletta e la spinge. Invece Paola, con un rapporto molto agile, pedala lentamente e riesce a non scendere di sella. Non siamo arrivati in fondo alla valle, ma 11 chilometri li abbiamo pedalati. Beviamo un caffè e ci mettiamo di nuovo in moto.

Ieri avevamo visto che con delle barche a remi si poteva raggiungere l’isola. Davanti al campeggio c’è un barcaiolo in attesa di clienti. Ci avviciniamo, ci invita a salire. La sua barca si chiama Anja. E’ una bella barca a remi dal legno chiaro e lucido. Ha una copertura in tela, sorretta da archi di legno. Ricorda quelle del lago di Como. Ci dice che prima di salpare aspettiamo qualche minuto nella speranza di far salire qualche altro turista. Poco dopo sale un signore che parla inglese. Indossa la maglietta nera degli All black. Sarà neozelandese o solo un grande tifoso della squadra di rugby di quella nazione?

Salpiamo. Il vogatore rema in piedi e parlando un po’ in inglese ci dice che nel lago vivono diciannove specie ittiche, che l’isola è uno sperone roccioso di dolomia, che spuntava nel mezzo della lingua glaciale, che ha formato il lago. Poi indica alla nostra destra un orribile caseggiato di cemento a vista. Ha la forma di un parallelepipedo, le cui dimensioni di lunghezza e larghezza superano quelle dell’altezza. Esso è appoggiato a un alto pilastro di cemento. Ci dice che quella era la villa di Stalin e poi è stata la villa di Tito. Il lago in questa bella mattina di sole è vissuto. Ci sono persone esperte nel nuoto, che sono molto al largo. Ci sono tantissimi natanti: altre barche come la nostra, barche a remi prese a noleggio, canotti e canoe e tavole a remi, ultima moda. Ecco passarci accanto silenziosa e rapida la canoa della famiglia italiana, che ha il camper nella piazzuola di fronte alla nostra. Ci siamo conosciuti ieri, perché siamo arrivati quasi contemporaneamente. Sono due giovano sposi con una bimba di due anni e mezzo. Giuseppe li fotografa.

Intanto approdiamo all’isola. Il vogatore ci dice di ritornare tra quaranta minuti. Una ripida scalinata collega l’approdo con la sommità dell’isola, dove sorge la chiesetta di santa Maria Assunta. Saliamo. La chiesetta del XV secolo ha un bell’altare ligneo, con la statua della Madonna che tiene in braccio Gesù. A fianco ci sono le statue del re di Germania Enrico II e di Cunegonda, sua moglie. Dal soffitto davanti all’altare pende una lunga corda, che è collegata alla campana, detta “dei desideri”. Si dice che, se la si suona, il desiderio si avvera. Ecco perché si sente in continuazione il suo scampanellio! Entra nella chiesetta una frotta di asiatici, che non degnano di uno sguardo l’altare e i quadri, ma fanno a gara a chi arriva per primo alla corda e si fanno fotografare o filmare mentre scampanellano. Staccato dalla chiesa, sorge un alto campanile. Giuseppe scatta un po’ di fotografie e poi torniamo alla barca.

Mentre aspettiamo il nostro compagno di viaggio, il vogatore ci mostra sul suo telefonino la fotografia di un pesce gatto pescato nel lago: un bestione lungo due metri e mezzo del peso di settanta chilogrammi! Dopo pranzo, Giuseppe fa vedere ai canoisti italiani la fotografia che ha scattato e gliela scarica dando loro anche il riferimento del nostro sito. Nel pomeriggio ci rechiamo al castello. Usciti dal campeggio, ci incamminiamo lungo la pedonale in senso orario. Quasi arrivati in città seguiamo uno stradello che porta verso il castello. S’inizia a salire lungo una sterrata poi con una scalinata di circa quattrocento gradini si giunge al portone. Il castello, costruito nel 1200, è stato nel secolo successivo protetto da una seconda cinta di mura. Al suo interno presenta due cortili, posti su livelli differenti. A essi si affacciano degli edifici. Quelli più interessanti sono nel cortile superiore. Uno è la cappella del XVI secolo e l’altro ospita il museo, che racconta la storia di Bled dall’età del bronzo fino a oggi. Nel castello ci sono delle botteghe artigianali, che lavorano come si usava un tempo. Nella fucina del fabbro c’è un ragazzone che lavora il ferro. Ci dice di appartenere alla quarta generazione di fabbri. Per la nostra parete dei ricordi compriamo un cuore di ferro battuto. Dopo aver visitato il museo, che con un video interattivo, anche in lingua italiana, dà molte informazioni, ci fermiamo nel grande cortile superiore. Alle ore 17.00 inizia una rappresentazione in costume. Sono pochi gli spettatori di lingua slovena, la storia è però comprensibile, perché gli attori sono anche dei bravi mimi. La storia che è messa in scena narra della figlia di una nobile famiglia innamorata di un popolano. Suo padre, in cattive condizioni economiche, la promette in sposa a un anziano e danaroso nobile. Si organizza la festa di nozze. Il popolano riesce a introdursi nel ballo. Quando l’anziano nobile vede l’intesa tra la sua promessa sposa e il giovane, lo sfida a duello. Il combattimento assume una vena grottesca e comica molto divertente. Alla fine, come in tutte le favole, è l’amore a vincere e i due giovani ricevono la benedizione accondiscendente del padre. Ritorniamo in campeggio. La stanchezza inizia a farsi sentire, perché la camminata pomeridiana è stata di circa otto chilometri. Giuseppe al calar della sera trova ancora un po’ di forza e va al lago per fotografarlo con i suoi riflessi di luce. mercoledì

3 agosto

Nel grande e organizzato campeggio di Bled c’è l’Europa e si respira la sua aria. Sloveni, olandesi, cechi, tedeschi, italiani, danesi, slovacchi, belgi, polacchi, francesi, rumeni, austriaci, britannici, ungheresi, spagnoli abitano in camper, roulotte, tende grandi e piccole gli uni accanto agli altri. Ciascuno conserva la propria privacy, eppure ognuno è aperto cordialmente verso tutti. Un cenno di saluto, qualche parola in inglese, a volte un po’ stentato, qualche altra parola in tedesco, qualche parola nella propria lingua, accompagnata da gesti per aiutarsi nella comprensione reciproca, il sorriso a illuminare il viso e a rendere lo sguardo amichevole e accogliente, una mano pronta ad aiutare in caso di bisogno, questa è l’armonia e il sentirsi fratelli, che unisce persone con storie e culture diverse in un unico popolo. Riprendiamo il viaggio e percorriamo la valle che ieri mattina avevamo iniziato a percorrere in bicicletta. Risaliamo contro corrente il fiume Bohinjska. Esso scorre limpido e trasparente tra le rocce che ha scavato. La strada lo segue un po’ più elevata salendo e scendendo secondo la morfologia del terreno. Dopo una forra, la valle diventa di origine glaciale. Transitiamo da piccoli paesi, poche case attorno alla chiesetta con il campanile che termina con due cipolle sovrapposte, separate tra loro da colonnine. Superata Bohinjska Bietrica, il paese più grande della valle, giungiamo al lago. Posteggiamo il camper e andiamo al lago. Le sue acque riflettono i colori della natura. Il verde, il blu, il turchese e l’ambra si stemperano l’uno nell’altro miscelandosi nelle luccicanti increspature. Il lago termina ai piedi di un circo glaciale, oggi solo roccioso. Ci incamminiamo lungo la pedonale che lo costeggia e la percorriamo per circa un’ora e cogliamo scorci panoramici davvero incantevoli, poi torniamo indietro. Visitiamo l’antica chiesetta di San Giovanni Battista, che risale al secolo XI. Le sue pareti esterne e interne sono decorate da affreschi, che risalgono al XV e XVI secolo. Gli affreschi dell’abside sono molto belli, essi danno risalto all’altare dorato. Il pulpito ligneo dà pregio al luogo di culto. Pranziamo sul camper con un semplice e gustoso piatto estivo, poi ripartiamo.

Ritorniamo a Bled, la attraversiamo e continuiamo lungo strade già note. Ecco Jesenice che ci dà la possibilità di fare la spesa, poi ancora più indietro ecco Dovje: ciao campeggio Kamne! A Kranjska Gora svoltiamo a sinistra e iniziamo a salire verso il Passo Visíc. Siamo sempre all’interno del Parco Nazionale Triglav. La strada è stata costruita dai prigionieri di guerra russi negli anni 1916-17. Si presenta impegnativa, ha pendenze del 14%. Essa alterna stretti e ripidi tornanti, pavimentati in pavé, con tratti di curve e controcurve. Giuseppe con il clacson avvisa del nostro arrivo al tornante. La sua preoccupazione riguarda soprattutto i motociclisti e i ciclisti. Essi, esaltati dalla discesa, spesso non pensano al traffico del senso contrario e disegnano traiettorie, che non fanno perdere loro la velocità, ma che li obbligano a uscire dalla loro carreggiata. Una piazzuola ci consente una sosta per fotografare le splendide montagne della valle.

Le Alpi Giulie non raggiungono altezze elevate, eppure per il loro arcigno aspetto sono proprio degne di essere chiamate Alpi. Più avanti, a quota 1226 metri, sostiamo ancora. Il panorama è ancora più spettacolare. La catena antistante al Triglav presenta in alto una finestra aperta verso il cielo e più in basso, su una lamina rossiccia, sembra essere scolpito il volto di una donna. Che artista la natura! A quota 1611, dopo aver affrontato venticinque tornanti, scolliniamo. Lo spartiacque separa il bacino idrografico del Danubio da quello dell’Isonzo che qui nasce. Anche la discesa si presenta difficoltosa. Ha la stessa pendenza della salita. Incontriamo gruppi di motociclisti, che credono di essere i padroni della strada. La numerazione dei tornanti prosegue 26, 27, 28... quando termineranno? Su un prato adiacente a un tornante vediamo troneggiare una grande statua bronzea.

Siamo curiosi di conoscere il personaggio. Riusciamo a posteggiare il camper. La statua rappresenta Julius Kugi nell’atteggiamento di guardare verso le montagne. Kugi, di madre slovena e padre carinziano, vissuto tra la metà del 1800 e quella del 1900, è stato, tra l’altro, il grande alpinista che ha scalato e aperto più di cinquanta nuove vie sulle Alpi Giulie. Egli diceva: ”Non cercate nelle montagne un’impalcatura per arrampicare, cercate la loro anima.” Terminiamo la discesa. L’ultimo tornante ha il numero quarantanove. Il primo paese che incontriamo si chiama Trenta. Sorge sulla sponda sinistra dell’Isonzo e proprio su questa sponda c’è il campeggio. E’ piuttosto piccolo e si chiama come il paese. Un posto per noi c’è ed è pure poetico. Il nostro finestrone guarda il fiume che, ancora giovane, gioca chiassosamente tra i sassi. Sono le ore 17.00, possiamo riposarci e fissare con calma i ricordi della giornata. La quiete pomeridiana è presto interrotta dal suono di una sirena. E’ un’ambulanza che sale verso il valico velocemente. Essa è seguita da un’automobile della polizia, che a sua volta chiede strada con la sirena spiegata. Sicuramente sui tornanti che abbiamo appena percorso, è successo qualcosa di grave. Siamo contenti di non essere stati coinvolti o bloccati, speriamo che l’incidente non sia tragico. Dopo circa un’ora, i due mezzi di soccorso ritornano indietro. Mentalmente inviamo un augurio al malcapitato. Il campeggio con il passare delle ore si popola e la sera giunge rapidamente. La luce del tramonto indugia sulle cime che fanno da sfondo alla valle indorandole. Poi quasi improvvisamente scende la notte e il cielo non rischiarato dalla luna si trapunta di stelle, colmandoci di stupore.

giovedì 4 agosto

Ci svegliamo che è già chiaro. La luce che filtra dagli scuri ci annuncia una bella giornata. Il Soča, cioè l’Isonzo continua la sua corsa verso valle e verso l’Italia e noi lo seguiamo. Riceve i primi affluenti, ripidi torrenti che scendono diritti. Ci piace questo fiume. Scorre sinuoso tra anse, rapide e cascatelle, leviga rocce, crea anfratti, scava pozze profonde, si colora ora del colore dei sassi che trascina e rotola, ora di blu e azzurro, di turchese, di verde e bianco. A Bovec vediamo sul dorso della montagna il tracciato di un impianto di risalita che giunge sotto la vetta del Monte Canin, in italiano Monte Canino. Oggi è la giornata giusta per salire in alto e spaziare con lo sguardo sulle Alpi Giulie. Raggiungiamo il parcheggio, che ha una parte riservata ad area camper.

Delusione! La bidonvia non è in funzione. E’ cantierizzata, perché stanno creando il comprensorio sciistico che collegherà questa zona della Slovenia con Sella Nevea, in Italia. Ci accontentiamo di ammirare il Monte Canino dal basso. Ripartiamo e, nel cassetto della memoria, Paola ritrova le parole e il motivo del vecchio canto militare che parla di questo monte.

♫ Non ti ricordi quel mese d’aprile,

quel lungo treno che andava al confine

e trasportava migliaia di alpini,

su, su correte, che è ora di partir.

Dopo tre giorni di strada ferrata

e altri due di lungo cammino,

siamo arrivati sul Monte Canino

e a ciel sereno ci tocca riposar.

Se avete fame, guardate lontano,

se avete sete, la tazza alla mano,

se avete sete, la tazza alla mano,

a rinfrescare la neve ci sarà. ♫

Il ricordo di queste strofe che ci parlano di fatiche, privazioni e sofferenze, ci introduce nell’atmosfera dei prossimi giorni. Sommessamente canticchiamo. Ci fermiamo nel campeggio Koren di Kobarid.

Troviamo posto in una piazzuola ombreggiata da folti faggi. Dopo pranzo ci concediamo un po’ di riposo, poi ci rechiamo in paese. Kobarid è il paese che in italiano ha il nome di Caporetto. Il suo nome non evoca una bella pagina della nostra storia, eppure per Paola quella tragica disfatta è probabilmente all’origine della sua vita. Infatti, suo nonno materno, il fante Luigi, per gli amici Lisi, allora ventunenne, combatteva sul fronte dell’Isonzo. La morte improvvisa di Maria, la sua mamma, fu il motivo di una licenza. Quando tornò al fronte la disfatta del 24 ottobre 1917 era ormai avvenuta. Aveva perso quasi tutti i suoi commilitoni. La sua vita era salva. Con i superstiti fu catturato dagli austriaci, portato in un campo di concentramento e poi confinato in Romania.

Tornò in Italia al termine del conflitto, dopo varie peripezie, raccontate da lui stesso in un diario, scritto in tempo reale. Caporetto è un piccolo paese. Visitiamo la sua chiesa costruita nel XIX secolo in stile neoromanico, poi all’ufficio informazioni prendiamo diversi opuscoli, ci aiuteranno ad affrontare domani il percorso storico. venerdì 5 agosto Iniziamo la giornata visitando il museo della I guerra mondiale. E’ organizzato su tre piani. Il piano terra ospita la mostra temporanea “L’esercito italiano nell’alto Isonzo”. E’ davvero molto interessante. Essa espone il diario, anche fotografico, del dottor Augusto Witting di Firenze, che diresse gli ospedali militari di Caporetto e di Srpenica.

Sono immagini e parole che nella loro crudezza e semplicità toccano il cuore. A volte non mancano note ironiche, che strappano un lieve sorriso, come l’augurio che egli riceve da un soldato mentre si avvicina al fronte, di avere poco lavoro, o la descrizione della visita del re Vittorio Emanuele III, che si aggirava come un turista fotografando baracche e ospedali, senza cogliere la sofferenza e la fatica dipinte sui volti dei soldati.

Vediamo un documentario in italiano che descrive la guerra combattuta su queste montagne. Essa si può sintetizzare con tre vocaboli: vittoria, assurdità, tragedia.

Vittoria perché nella primavera del 1915 l’entrata in guerra dell’Italia e la sua offensiva su questo fronte sorprende l’esercito ungherese, che non riesce a reggere l’attacco. L’esercito italiano in un mese conquista il Monte Nero, che poi durante il conflitto i soldati chiameranno Monte Rosso, per l’ingente tributo di sangue che entrambi gli schieramenti spargeranno sulle sue pendici. Assurdità perché un certo attendismo da parte del generale Cadorna blocca l’avanzamento dell’esercito italiano. Per far organizzare la stabilizzazione del territorio conquistato i fanti e gli alpini diventano operai. Costruiscono trincee e camminamenti, postazioni di osservazione e di tiro, attrezzano sentieri, costruiscono teleferiche per portare in alto il materiale bellico, le mitragliatrici, i cannoni, i generi di sopravvivenza, tracciano diverse linee difensive. Intanto l’esercito austroungarico si riorganizza. Per ventotto mesi i due schieramenti si fronteggiano con aspri combattimenti, senza registrare reciproci avanzamenti. I rigori dell’inverno, nell’ottobre 1916 in trincea c’era già un metro di neve, l’equipaggiamento di scarsa qualità, le scarpe avevano la suola di cartone, la scarsità di cibo, dovuta alle difficoltà di portare i rifornimenti, mettono a dura prova i soldati italiani. I combattenti cadono su entrambi i fronti vittime del nemico, delle valanghe, dei fulmini dei temporali estivi, dei plotoni di esecuzione, se si era sospettati di negligenze o se si tardava a rientrare da un permesso. Lo schieramento austroungarico è rinforzato con le truppe tedesche. Il contrattacco è condotto per la prima volta nella storia come una guerra lampo. Il comando generale tedesco dà ai comandanti in campo piena autonomia nelle scelte contingenti, pur nell’ottica di un’unica strategia. Il 24 ottobre 1917 la grande battaglia di Caporetto segna la tragedia. L’esercito italiano, vinto e decimato, si ritira.

Al primo piano troviamo un plastico che mostra le posizioni degli schieramenti e in un’altra sala la storia di Caporetto dai primi insediamenti al 26 giugno 1991, anno dell’indipendenza della Slovenia dalla Jugoslavia. Al piano superiore sono esposti armi, uniformi e oggetti di uso comune dei soldati. E’ anche ricostruita una caverna, che ospita un alpino nell’intento di scrivere una struggente lettera a suo padre. La ascoltiamo. Racconta di giorni infernali, passati in trincea, sotto la pioggia battente e sotto quella delle pallottole. Dice che ormai le riconosce dal loro suono. Ci sono le pallottole che sibilano, quelle che ruggiscono, quelle che fischiano, quelle che urlano, ma che sono tutte devastanti. Racconta, che per giorni non ha mangiato, né bevuto e che, nonostante il fetore dei cadaveri e le cannonate, ha dormito qualche ora. Chiude la lettera rassicurando il genitore di avere la ferrea volontà di tornare a casa. Una nota di ottimismo, che esprime un grande amore filiale.

Dopo questa tappa introduttiva seguiamo il “Sentiero storico” e saliamo verso il sacrario. La strada inizia nel centro del paese. Passiamo per una porta contrassegnata da due colonne di pietra. Quella di destra è sormontata dal crocefisso, quella di sinistra dalla stella, simbolo del comunismo. Il sacrario, formato da tre arcate concentriche, è stato costruito intorno alla chiesa di Sant’Antonio da Padova, edificata nel 1669. Esso è stato inaugurato da Mussolini nel 1938. Lo si raggiunge salendo lungo una strada asfaltata, che ha le cappelle della Via Crucis. Ci avviciniamo al luogo sacro pregando. Lassù sono sepolti 7014 soldati italiani di cui duemila ignoti. Un momento di raccoglimento in chiesa è d’obbligo. Come diceva il Mahatma Gandhi: “Occhio per occhio, si diventa tutti ciechi.” E’ la forza della non violenza e della misericordia, che può dare al mondo la pace vera. Questo è il senso del Giubileo indetto da Papa Francesco. Quando questa verità sarà compresa e vissuta da ogni uomo? Il nostro cammino prosegue lungo il sentiero che si addentra nella faggeta. Sale gradualmente, poi scende per guadare un ruscello, risale e ridiscende. Una ripida scalinata ci porta al castello.

Il cartello informativo spiega che ci troviamo nel luogo del più antico insediamento di Kobarid. Infatti, per la sua posizione posta su una rupe scoscesa, era una cittadella fortificata. Prendiamo atto, a noi questi ruderi in parte rimaneggiati, dicono poco. Il nostro cammino prosegue. Ora il sentiero è molto ripido e ci conduce verso il basso. In parte è tracciato dentro una trincea molto ricostruita. La nuvolosità alta e sottile di questa mattina non faceva presagire la pioggia. Essa invece inizia a scendere. Noi non abbiamo portato le giacche impermeabili. Prima arriva uno scroscio, poi si calma, segue ancora qualche goccia e infine la pioggia diventa intensa e sempre più fitta e pungente. Giungiamo al ponte sull’Isonzo. E’ la passerella di legno lunga circa 52 metri, costruita dove durante la Grande Guerra si trovava quella che univa le due sponde del fiume, che qui scorre in un’incantevole e profonda forra. L’itinerario prosegue verso un punto di osservazione. Noi siamo troppo bagnati per completare il giro. Terminiamo qui l’escursione e torniamo al camper. Pranziamo in un’ora quasi spagnola. I temporali si susseguono sempre più ravvicinati e intensi. Al riparo nella nostra casetta trascorriamo il pomeriggio e la sera.

sabato 6 agosto

Rientriamo in Italia per il week end. Uscendo da Caporetto abbandoniamo la valle dell’Isonzo e iniziamo a percorrere la valle del Natisone. Si scende. Il vento forte sta liberando il cielo dalle ultime nubi. Passiamo dalle Alpi alle Prealpi Giulie. Le vette delle montagne sono arrotondate e completamente rivestite di boschi. Poi sbocchiamo in pianura e arriviamo a Cividale del Friuli.

Le sue caratteristiche torri campanarie ci invitano a una sosta. Troviamo ai margini delle mura la sua piccola area camper. Ha solo quattro stalli e il camper service, tutto gratuito. Entriamo in città lungo una sua elegante via. A essa si affaccia il palazzo Levrini Stringher. E’ un edificio del XVI secolo, posto ad angolo tra due vie. Le sue facciate sono affrescate con immagini religiose e mitologiche. Su un lato si vede Venere con le tre grazie, sull’altro lato è dipinta la Vergine con il Bambino. Dopo pochi passi siamo in via Cavour, che conduce nel centro della città. Visitiamo il duomo dedicato a santa Maria Assunta, esso sta di fronte al bel Palazzo Comunale del XIII secolo, costruito con mattoni rossi. Proseguendo arriviamo al Ponte del Diavolo, sul Natisone. Era stato costruito nel 1442, ma nel corso dei secoli ha subito diverse ricostruzioni. L’ultima risale al 1918. Infatti, l’anno prima a seguito della disfatta di Caporetto, gli italiani l’avevano fatto saltare nella vana speranza di rallentare l’avanzata dell’esercito tedesco. La stessa operazione l’hanno tentata i tedeschi nel 1945, durante la loro ritirata, ma in questo caso il ponte ha subito solo dei danni. Il nome del ponte è legato a una leggenda, che abbiamo già trovato in Francia. Si dice che il diavolo, per non distruggere il ponte, avesse chiesto di entrare in possesso dell’anima di chi fosse passato per primo sul ponte e che i cividalesi abbiano fatto passare un animale. Di grande pregio è il Tempietto Longobardo. Esso fu eretto dal re longobardo Astolfo nel secolo VIII. Si presenta come un’aula quadrata con la volta a crociera. Le pareti sono state affrescate nel 1300. Oggi gli affreschi sono molto rovinati, quindi di difficile decifrazione, tuttavia un filmato introduttivo ci aiuta a comprendere queste opere d’arte. Sopra la porta d’ingresso ci sono delle statue di stucco che rappresentano alcuni martiri, si riconoscono perché hanno in mano la palma del martirio. Nella lunetta è rappresentato Cristo nell’atteggiamento di insegnare. Lo stile degli affreschi è bizantino, perché i migliori artisti di quell’epoca provenivano da quella scuola e, come si usava allora, s’insegnava mediante la pittura. Per spiegare l’origine umana e divina di Cristo, Egli è stato dipinto con il manto rosso, segno della sua umanità e con la tunica azzurra, segno della sua divinità. Il presbiterio è diviso dall’aula da un’iconostasi, cioè da degli elementi orizzontali sorretti da colonne marmoree. L’affresco della volta a mandorla del presbiterio è ben leggibile e rappresenta il Cristo benedicente. Usciti, visitiamo il Borgo Brossana, che è la parte medioevale della città. Vi si accede attraverso delle porte. Le case in pietra si affacciano sui vicoli acciottolati. Cogliamo degli scorci poetici. Prima di rientrare al camper nel panificio compriamo il pane e una fetta di gubana, il dolce caratteristico della valle del Natisone. La pasta è farcita con uvetta, noci e pinoli ed è inzuppata di grappa. Ci incamminiamo verso il camper contenti di esserci fermati. Una sorpresa, però ci attende. In fondo a una via, da una chiesetta con la facciata affrescata, esce una musica melodiosa. Ci affacciamo. Tre giovani musicisti stanno suonando con i loro violini una musica da camera. Ad ascoltarli c’è una coppia. Ci fermiamo anche noi. Il concerto però termina quasi subito.

Pranziamo sul camper. La temperatura è intorno ai 30°C. Non siamo più abituati a questo caldo. Ripartiamo e ci rechiamo al Sacrario di Redipuglia. La pianura che percorriamo è piacevole. Siamo nella zona viticola del Friuli. Lunghi filari sono carichi di grappoli che stanno maturando. Simpatiche sono le vie di Corno di Rosazzo. Esse sono denominate con i soliti nomi di persone famose, sotto la denominazione ufficiale c’è una scritta nera su giallo con la denominazione vinicola. Leggiamo via del Prosecco, via del Soave, via del Tocaj e altri vini. La visita del sacrario di Redipuglia ci ricolma ancora di tristezza e commozione. Sorge sulla collina di sant’Elia, dove una volta era presente un cimitero. Con i suoi 100.000 soldati tumulati, è il più grande sacrario d’Italia. Si entra e si percorre un piano inclinato detto via Eroica. Essa è affiancata da lastre di bronzo con inciso il nome delle località, dove le battaglie dell’Isonzo sono state più aspre e cruente . Saliamo lungo la scalinata che costeggia i ventidue gradoni, dove sono tumulati i quarantamila soldati noti. Tra essi ne troviamo uno che ha il cognome di Giuseppe, che non sa se tra i suoi avi c’è stato qualcuno caduto in questa guerra. Lo sentiamo particolarmente vicino, anche perché di lui non si conosce nulla: né i suoi dati, né il suo grado. Nelle pareti della cappella sono sepolti i sessantamila militi dei quali non si conosce nulla, “ignoti al mondo, ma noti a Dio”, questo dice la scritta, l’unica non retorica, tra quelle presenti. Per la notte cerchiamo un luogo fresco. Lo troviamo ad Alture di Polazzo.

E’ un agri-campeggio sull’altopiano del Carso di Castelnuovo. Non ha il camper service. Chi lo gestisce non ci vuole accogliere, perché teme che noi scarichiamo le acque di scarto sul prato e quindi teme di perdere le certificazioni bio. Gli garantiamo che non lo facciamo mai e che non lo faremo neanche oggi. Non ne abbiamo neppure la necessità, avendo governato il camper a Cividale. Si convince e ci consente la sosta. Entriamo e ci sistemiamo in un’ariosa piazzuola. Apriamo subito tutti i finestrini e gli oblò e il vento fa il resto. La temperatura scende subito di parecchi gradi. Serata serena e davvero riposante.

domenica 7 agosto

Alle ore 10.00 partecipiamo alla messa nella chiesa parrocchiale di Floriano di Redipuglia. Il celebrante nella predica si concentra sulla fede riprendendo la profonda definizione che di essa dà San Paolo: “La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede.” Poi partiamo per raggiungere la località di Partizanska Bolnica Franja. Ci dirigiamo quindi nuovamente verso la Slovenia. A Gradisca sull’Isonzo approfittiamo della sua area camper gratuita e da qui iniziamo a risalire il corso del fiume. Transitiamo da Gorizia, che da più di vent’anni ha ritrovato la sua unità e senza neppure accorgerci siamo di nuovo all’estero. Continuiamo lungo l’Isonzo, che ha diversi sbarramenti, che servono come prese d’acqua per la produzione di energia elettrica. In un’ombrosa piazzuola sostiamo e pranziamo. E’ domenica. La nostra tavola onora la festa: pollo allo spiedo con insalata di pomodori e la prima uva della stagione.

A Tolmin svoltiamo a destra e iniziamo a risalire il corso di un affluente di sinistra dell’Isonzo. La strada segue fedelmente il corso d’acqua con un succedersi di curve e controcurve. A Ravne nuova svolta, ora a sinistra. La strada è più stretta ma percorribile senza difficoltà. Siamo solo a un’altitudine di 200 metri, tuttavia l’ambiente che ci circonda è quello di altitudini più elevate. Ci sono cataste di tronchi dappertutto. Dove sono tagliati tutti questi alberi, se le foreste sono così fitte? A Cerkno svoltiamo ancora a sinistra. La strada sale ripida per un chilometro e termina alla nostra meta.

Lo spazio per parcheggiare è esiguo e tutto occupato. Giriamo il camper e posteggiamo su uno slargo erboso poco sotto. Partizanska Bolnica Franja è stato durante la seconda guerra mondiale un ospedale segreto dei partigiani. Porta il nome della dottoressa Franja Bojc, che l’ha diretto dal 1944 fino alla fine della guerra. Un sentiero ci conduce al luogo della visita. Allora era uno stretto pertugio intagliato nella roccia, che faceva da sponda al torrente. Oggi è attrezzato con passerelle di legno. L’ospedale segreto per i partigiani è stato costruito nel 1943 dopo la capitolazione dell’Italia, dentro una stretta gola rocciosa percorsa dallo scrosciante torrente Cernscica. Il luogo era stato indicato da Janez Peternelj, un contadino del paese di Dolenji Novaki. Egli dava rifugio ai partigiani feriti. Purtroppo le baracche originali sono state spazzate via dall’alluvione che nel 2009 sconvolse la piccola valle. L’ospedale è stato ricostruito fedelmente con i materiali e le suppellettili che erano presenti allora. L’ospedale era formato da quattordici baracche, i cui pavimenti si puntellavano alle rocce delle sponde del torrente. Alcune baracche erano delle palafitte, i cui pali di sostegno erano tronchi d’abete, incastrati tra i sassi del torrente. Ogni baracca aveva una sua funzione. C’era quella destinata all’isolamento dei degenti infettivi. C’erano quella di degenza dei feriti leggeri e quella per la degenza dei feriti gravi. Inoltre era presente la sala operatoria, la baracca con le attrezzature diagnostiche: la macchina per le radiografie, il piccolo laboratorio emato-clinico, le attrezzature dentistiche. Non mancavano le baracche destinate alla cucina e alla cambusa. Inoltre c’erano un’officina e la lavanderia, con una specie di autoclave per la sterilizzazione dei ferri chirurgici. Infine c’erano le baracche per il personale medico e la baracca del commissario politico. Sulle pareti delle baracche troneggiano i ritratti di Stalin e di Tito e ci sono anche appesi volantini di propaganda, che esaltano i partigiani con la stella rossa. E’ incredibile, eppure in quelle condizioni di disagio e precarietà sono stati assistiti e curati quasi novecento uomini, di cui cinquecento settantotto feriti gravi. In una baracca c’è un registro con l’elenco dei partigiani, che sono deceduti nonostante le cure. Sono circa sessanta e tra essi figura un italiano. Si chiamava Angelo Grosso, è stato ricoverato il 7 marzo 1944 ed è morto il 10 aprile dello stesso anno. L’ospedale era protetto da una postazione che controllava l’accesso alla valle. Essa era stata costruita in alto, incastrata tra le rocce e mimetizzata dalla vegetazione.

Riprendiamo il viaggio. Percorriamo le ultime propaggini delle Alpi Giulie e ci fermiamo nel tardo pomeriggio nell’area camper di Postumia.

lunedì 8 agosto

Ripartiamo da Postumia senza visitare le sue rinomate grotte, perché le abbiamo già viste qualche anno fa. Ci dirigiamo verso la Croazia, per vedere dove terminano le Alpi. Uscendo da Postumia costeggiamo il campo di volo di un areo club. La pista è in erba e su di essa stanno elegantemente camminando due cicogne. Proseguendo vediamo alla nostra sinistra una serie di quinte, le ultime delle quali formano il profilo delle Alpi Giulie. Esse declinano verso il mare. A Pirka troviamo lo spazio giusto per fermarci a fotografare. Questa zona della Slovenia è poco popolata. I piccoli villaggi sono prevalentemente agricoli. C’è profumo di erba tagliata nell’aria. Si sta producendo il fieno agostano. Il confine con la Croazia è anticipato da un segno inequivocabile. Lungo la strada ci sono numerosi chioschi di cambio valuta, convertono gli euro in kuna. Noi non cambiamo nulla, perché riteniamo che in Istria accettino anche gli euro e poi si può sempre pagare con la carta di credito. Arriviamo al confine. Qui c’è il controllo dei passaporti.

Passiamo in Croazia. Dall’alto vediamo le Alpi scendere verso il mare, poi anche noi arriviamo a Rjeka, cioè a Fiume. Ora inizia la ricerca del campeggio. Da Fiume ci spostiamo verso Labin. Facciamo salite verso l’interno e discese ripidissime verso il mare. In ogni campeggio riceviamo la medesima risposta: siamo al completo. Dopo qualche rifiuto ci diciamo che se la Croazia non ci vuole, sarà l’Italia ad accoglierci. Riprogrammiamo il navigatore e senza altri tentativi ci dirigiamo verso Trieste. E da qui a Sistiana. Troviamo posto al campeggio Mare Pineta. E’ un grande villaggio turistico. Non è proprio il tipo di camping che preferiamo, ma per qualche giorno va bene. Il mare è laggiù, sotto la scogliera, che ospita il campeggio. Per raggiungerlo percorriamo due chilometri in discesa. Siamo stati seduti tutto il giorno, un po’ di moto ci fa bene. Arriviamo al mare. Ecco anche noi come le Alpi lo tocchiamo e affondiamo in esso i nostri piedi.

11 agosto 2016

Avevamo pensato di terminare le nostre vacanze con qualche giorno balneare, ma il caldo eccessivo, il caos del camping e il mare di Sistiana poco invitante, ci inducono a rivedere il nostro programma. Andiamo nuovamente in montagna. La meta è Misurina. Come provetti alpinisti, aspettiamo la giornata ottimale per fare il giro delle Tre Cime di Lavaredo. Oggi è la giornata tanto attesa! Con l’autobus di linea saliamo fino al Rifugio Auronzo, che sta ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. Anche l’autobus deve affrontare la coda della barriera del pedaggio. La stupenda giornata agostana ha invogliato molti a salire. Dopo mezz’ora, anche l’autobus transita dalla sbarra. Un importante businnes per il comune di Auronzo questa strada a pagamento, che gli frutta 26.00 euro ad automobile!

Alle ore 10.30 iniziamo l’escursione, che consiste nel giro delle Tre Cime di Lavaredo. Percorriamo il sentiero in senso antiorario. Siamo in tanti a incamminarci lungo il tracciato semipiano, che porta al Rifugio Lavaredo. Le rinomate Tre Cime sono alla nostra sinistra. Alte e possenti hanno ai loro piedi estesi ghiaioni, espressione della loro fragilità. Sul versante opposto della valle osserviamo la tormentata catena dei Monti Cadini, irta di guglie e di pinnacoli. In basso vediamo il lago di Auronzo, una gemma smeraldina incastonata in una bordura di bosco. In lontananza il ghiacciaio della Marmolada, è un piccolo diamante che fa da sfondo a una serie di quinte azzurrognole. Dopo qualche fotografia arriva il momento di rivolgere il pensiero al Creatore di tanta bellezza.

Ci fermiamo alla Cappella di Maria Ausiliatrice per recitare una preghiera. Eccoci arrivati al Rifugio Lavaredo. Da qui il tracciato inizia a salire e qui avviene la prima selezione dei gitanti: circa un terzo di chi si è incamminato, si ferma. Proseguiamo senza sostare verso la forcella di Lavaredo. Ogni tanto stacchiamo lo sguardo dal sentiero e lo innalziamo verso l’alto e scrutiamo le pareti. Vediamo a qualche centinaio di metri d’altezza due arrampicatori. Si riconoscono perché il loro abbigliamento blu è una macchia di colore, che spicca sulla roccia.

Alla forcella un gruppo di asiatici sta ascoltando con attenzione la guida che indica le diverse cime. Il panorama offre una vista di ampio respiro e anche Giuseppe prepara una composizione. Qui abbandoniamo altri escursionisti. Proseguiamo il nostro cammino. A metà strada tra la forcella e il Rifugio Locatelli prendiamo il sentiero che taglia nel mezzo la Grava Longa. E’ tracciato sul suolo calcareo, tra rocce affioranti. Erbe, erica e rododendri ingentiliscono l’arido altopiano. Ora stiamo vedendo il lato settentrionale delle Tre Cime. Le pareti sono ancora più lisce e con numerosi tetti. Scalatori più esperti le stanno scalando, altri sono in procinto di iniziare l’ascesa. Con l’ingrandimento fotografico scorgiamo un bivacco provvisorio a metà parete della Torre di Mezzo.

Se questa mattina quando ci siamo alzati alle ore 7.30, la temperatura era di 2,5° C, a quale temperatura avrà dormito su quel bivacco lo scalatore? Rabbrividiamo, non solo immaginando il freddo della notte passata, ma anche pensando a come si può dormire su una brandina sospesa nel vuoto, immersi nel buio più totale. Ci volgiamo indietro. Sulla forcella ormai lontana continuano ad affacciarsi tante persone.

Sembra una scena da film western. Sembra di vedere gli indiani presi in contro luce sul crinale delle alture, prima della precipitosa e urlante discesa verso la prateria percorsa dalla carovana di un gruppo di pionieri.

Poche persone stanno seguendo il nostro sentiero. Ci piace il silenzio della montagna. In prossimità della malga Dobbiaco il sentiero si ricongiunge con quello che proviene dal Rifugio Locatelli. In questa zona la Grava Longa s’inumidisce. Ha un laghetto dal quale esce un torrentello. Sostiamo e sul prato pranziamo. Riprendiamo il cammino e risaliamo verso il Col Forcellina. Il laghetto di Grava Longa è un occhio verde. Ancora un po’ di strada mentre il sole gioca con le nuvole: sbuca mentre saliamo e si nasconde quando scendiamo. Dal Col Forcellina vediamo il Monte Piana e il Monte Piano e in lontananza le Dolomiti di Sesto, dal bel colore rossiccio. Ora il sentiero sale ancora. E’ tagliato nel ghiaione, però è percorribile senza difficoltà perché sufficientemente largo. Giungiamo alla terza forcella, Forcella del Col di Mezzo che ci riporta sul versante sud. Il panorama cambia e laggiù si vede il lago di Misurina. Arriviamo al parcheggio. C’è già l’autobus, saliamo e torniamo al camper. Adesso la nostra vacanza è davvero finita.