NON TI SCORDAR DI ME

 

MARCHE 2005

 

Come i minuscoli non ti scordar di me  risaltano per la loro semplicità e l’intenso colore e lasciano dentro al viandante la serenità dei buoni pensieri, così ci sono apparse le Marche, un territorio che racconta di borgo in borgo la storia e le leggende attraverso il perpetrarsi di antiche tradizioni e lascia in chi lo visita il sapore di un’equilibrata modernità.  

COLFIORITO

Tra Umbria e Marche, là dove la colonna vertebrale dell’Italia è dolente e di tanto in tanto si stira alla ricerca di una nuova posizione, appena sotto il valico omonimo si estende l’ampio pianoro di Colfiorito. Il rigore marzolino di quest’anno è ancora presente negli ultimi cumuli di neve, che ricoprono a tratti i campi seminati pronti al risveglio. Lungo il Chienti, che scorre placido e si impaluda nelle conche più profonde e si nasconde tra i canneti pigolanti, i contadini locali vendono patate e legumi, prodotti tipici della zona.

Ci fermiamo. L’incontro commerciale si trasforma in un breve incontro umano. La signora che ci serve, dopo averci dato la merce, le dosi    ad personam e i tempi di cottura, attraverso noi invia i suoi saluti e ringraziamenti alla nostra cara Milano, per il suo prezioso, competente e risolutivo intervento sanitario operato su sua figlia, affetta da una rara patologia contratta durante una gita scolastica in Francia.

PIORACO

 

A nord di Camerino, sorto alla confluenza del fiume Scarsito con il Potenza, incuneato in una gola carsica, sul margine superiore della forra, che fa precipitare il Potenza verso valle, c’è Pioraco, un piccolo borgo unico nel suo genere.

Luogo conosciuto e sfruttato dai romani per l’abbondanza delle sue acque , ha continuato a vivere utilizzando bene questa ricchezza naturale applicandosi già  nel lontano medioevo alla lavorazione della carta, attività ancora svolta nelle cartiere Miliani, sulla cui carta marchiata Fabriano da generazioni gli studenti disegnano.

Interessante è la Gualchiera, bottega artigianale della carta, situata in quello che era un convento francescano. La visita guidata consente di vedere le fasi terminali del processo di produzione della carta, così come veniva svolto nei secoli passati.

Oggi si parla tanto di riciclo dei materiali e poi si fa poco. Ad esempio in questi luoghi sono rare le campane di raccolta dei diversi materiali. Qui, invece, secoli fa, non si parlava di ecologia, la si viveva.

Umili figure, le stracciaiole, donne del volgo, trascorrevano la giornata passando in rassegna i tessuti dismessi, sporchi e maleodoranti e li separavano secondo la loro origine, il colore e la consistenza.

Quelli di fibra di origine vegetale venivano posti sotto dei magli azionati dalla forza idraulica. I magli avevano un differente piano di battitura. I primi erano appuntiti per lacerare i tessuti, gli altri avevano via via meno punte, perché la loro azione era finalizzata alla sfibratura del tessuto.

Successivamente il tessuto era macerato in grossi tini il cui contenuto era tenuto in continuo movimento grazie al lavoro di un uomo, che rimescolava la sospensione fino a quando non si era trasformata in poltiglia.

Quindi nasceva la carta. Un mastro cartaio prendeva un sottilissimo setaccio intrecciato con fili di bronzo e rame. La sua grandezza era diversa secondo le dimensioni  del foglio. Se nel setaccio i fili disegnavano figure particolari, la carta nasceva con la filigrana. Sul setaccio veniva poi posta una cornice che determinava lo spessore del foglio. Quindi il foglio veniva immerso nel tino e subito estratto ricoperto dalla poltiglia bianca. Colata una prima quantità di acqua, il setaccio era ribaltato su un feltro di lana, adagiato su un attrezzo a dorso di asino e qui lasciato ad asciugare.

La parte terminale dell’asciugatura avveniva sottoponendo il foglio ad una pressa o appendendolo ad un asciugatoio. La carta asciutta era resa impermeabile all’inchiostro con grasso animale. Infine la carta veniva lisciata passandole sopra con forza uno strumento levigato fatto di legno o di marmo. La visita alla Gualchiera si conclude con la mostra delle carte filigranate.

CAMERINO

La città di Camerino dà proprio una chiara idea della precarietà delle cose del mondo. Sorta sulla dorsale che separa la valle del Chienti da quella del Potenza, è stata soprattutto nel periodo rinascimentale il centro del suo grande-piccolo mondo, sul quale estendeva il controllo e il potere  e dal quale si difendeva chiusa nelle alte mura.

Nelle epoche più recenti proprio la sua posizione arroccata, spostata rispetto le direzioni cardinali, ne ha determinato il declino.

La visitiamo nel giorno di Pasquetta. Non è certo fotogenica! Trascurata nell’ambiente civico pubblico e privato, è ancora profondamente segnata dal terremoto del 1997, ma è intenzionata a rimarginare quanto prima quelle ferite ormai datate.

E’ secondo questo spirito che partecipiamo alla colazione allestita dai “Volontari per i monumenti” sotto il porticato del cortile d’onore del Palazzo Ducale, oggi sede dell’università.

Coratella, frittatine alle erbe e ai peperoni, uovo sodo, ciavuscolo, delicato salame dalla pasta morbida e spalmabile, pizza di Pasqua, dolce della zona, tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino dei colli maceratesi: un assaggio, tanti assaggi …e il pranzo è servito.

 FIASTRA

La ricerca di un luogo sacro marchigiano dove vivere il triduo pasquale si è conclusa con la scelta dell’Abbazia di Fiastra, perché dà la possibilità di sostare col camper nell’apposita zona attrezzata ubicata nell’area adiacente all’Abbazia stessa.

L’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra, lo dice il nome stesso, è “vicina” a Milano. Fondata a metà del XII secolo dai monaci cistercensi, provenienti dalla nostra città, ha vissuto tempi di prosperità e di grandi difficoltà ed è stata nuovamente abitata dai monaci fondatori dal 1985. Il suo complesso monumentale è vasto, ma solo una parte è dei monaci.

Infatti esso fu ceduto alla fine del 1700 alla nobile famiglia Giustiniani Bandini, che nel XIX secolo edificò sul lato sud del monastero un sontuoso palazzo. Esso ha alle spalle il chiostro del monastero e di fronte un florido giardino all’inglese, nel quale spicca una maestosa quercia da sughero.

La parte del monastero che si può visitare, se si esclude la chiesa, mostra i locali e le attività una volta utilizzati e svolte dai monaci. Interessanti sono il chiostro, che ha al centro un pozzo a cisterna, progettato in modo tale da filtrare l’acqua piovana per non renderla marcescente durante il suo deposito, le grotte e le cantine.

In queste ultime sono conservati antichi frantoi per la lavorazione delle olive, torchi per la pigiatura dell’uva, tini e botti per la fermentazione del mosto e la conservazione del vino. Le grotte sono invece dei veri e propri cunicoli di corridoi e celle una volta usati per la conservazione al fresco delle derrate alimentari, ma anche usati come rifugio e vie di fuga, celando delle uscite sulle campagne circostanti.La chiesa di stile romanico ha anteposto alla sua facciata una loggia, che si apre sul grande sagrato mediante delle trifore sorrette da duplici sottili colonnine. 

     Entrando nel luogo di culto si coglie subito la spiritualità cistercense: austera e nuda richiama il credente all’essenzialità della fede che, come dice san Paolo “è Cristo, Cristo crocifisso.”

    I monaci attualmente presenti non superano la decina. Alcuni sono anziani, un paio abbastanza giovani, tre sono anche sacerdoti. Insieme hanno celebrato la liturgia del triduo pasquale, ciascuno svolgendo il compito più indicato.

    Così i tre sacerdoti si sono alternati nel presiedere la liturgia. Il più anziano con la lavanda dei piedi dell’Ultima Cena ha sottolineato il valore dell’umiltà. Ha diretto la Passione e la Via Crucis il “frate confessore”. Egli con voce possente e con tono fustigatore ha scosso le coscienze interrogando i presenti sulla propria fede.

    La messa della Resurrezione è stata celebrata tutta cantata dal “frate canterino” per esaltare la gioia della salvezza e dell’amore fedele di Dio donato ad ogni uomo.

FIASTRA: LA RISERVA NATURALE

 

 

La regione Marche conserva ancora in

gran parte del suo territorio non prospiciente al mare, il caratteristico insediamento umano che, insieme alla morfologia del territorio e alla storia antica, le hanno dato il nome.

 La riserva naturale di Fiastra è stata istituita allo scopo di conservare la testimonianza biologica di ciò che era in origine il territorio e come esso si sia nei secoli antropizzato in modo armonico.

Percorrendo i suoi sentieri e le sue strade bianche si conoscono e si comprendono i diversi ambienti osservandono i tratti paesaggistici nelle tante sfumature dei coltivi, del bosco, delle zone umide, ascoltandone la loro voce attraverso i versi degli animali liberi ed allevati, lo stormire delle fronde, il rumore dei mezzi agricoli, sentendone gli odori forti e penetranti come quello dell’humus che ricopre i sentieri e quello dei pollai e dei campi concimati ed i profumi delicati e fuggevoli di qualche piccola erba o fiore, incontrandone gli abitanti nel fluire quotidiano delle loro attività. 

 

 

TREIA

 

 

 

Diversi sono i modi con cui si può visitare una città.  La si può osservare con gli occhi incollati alla guida turistica, la si può guardare omettendo dai propri passi qualche monumento per addentrarsi anche nei rioni meno rinomati, per scoprire angoli curiosi e capire qualcosa di più di coloro che la abitano e la si può vedere con gli occhi entusiasti e benevoli di chi da sempre la ama e la vive.

 Luciano l’amico e collega, Nicola il professore, Quinto e Luciano, sono i protagonisti della nostra storia in Treia.

  Con il fare  simpatico e allegro, tipico dei marchigiani, ci guidano alla scoperta di una città poco considerata dalle guide turistiche italiane, anche quelle che si occupano dei centri minori.   Treia ha invece molto da farsi invidiare da altri centri, ben più apprezzati e famosi.

 

Come un gatto sornione  sdraiato sul bracciolo di un divano allunga le sue zampe verso il basso, pronto a fermare il suo precario equilibrio, così è Treia: un borgo antico, adagiato lungo la parte terminale del crinale dei Monti Sibillini, puntellato ad esso con possenti e poderose mura, che la circondano facendone un castone elevato tra mare e monte, la cui punta di diamante è la vetusta torre longobarda dell’Onglavina.

 Grazie alle nostre speciali guide l’abbiamo ammirata dall’angolatura unica e singolare che si ha da dentro il giardino delle suore Visitandine, spazio verde e sereno aperto a chi, treiese,  conosce le suore. Sempre accompagnati dal loro contagioso entusiasmo abbiamo scoperto bellezze segrete come androni d’epoca, giardini interni e gli stucchi  di un lussuoso albergo in ristrutturazione.

Il cuore di Treia è però la piazza della Repubblica ed è qui che ci raggiunge la signora Rosalia che, dopo averci accolto con squisita ospitalità nella sua bella ed elegante casa medioevale, ama condividere con noi la dovizia della sua città. 

  Piazza della Repubblica è chiusa verso il mare da un lungo balcone inframmezzato dall’edicola col busto bronzeo del suo cittadino più illustre, il Papa Pio VI. Esso unisce in un unico abbraccio le due anime della città, quella religiosa  rappresentata dalla chiesa di San Filippo e quella  illuminista, rappresentata dall’Accademia Georgica.

Sul lato opposto, nel Palazzo Comunale, vi è una pregievole pinacoteca con la sala degli stemmi delle famiglie illustri, tra i quali è conservato quello della famiglia Didimi, che diede i natali allo sportivo Carlo, ricordato dal Leopardi in un famoso canto e la sala consigliare con il soffitto e le pareti completamente affrescate.

FRASASSI

 

Ieri era oggi, oggi è già domani…”

  Così recita un verso di una bella canzone della nostra adolescenza, così è ciò che accade nel sottosuolo calcareo, modellato dal carsismo.   A Frasassi il torrente Sentino sembra avere fretta di terminare la sua corsa riversando le sue taglienti acque nell’Esino. Le  alte e gracchianti pareti rocciose che ha intagliato sono un grande libro di geologia, che attende paziente che audaci scienziati lo aprano per spiegarlo al mondo.

  Entriamo nelle grotte attraverso un cunicolo artificiale lungo circa 200 metri. Via via che si procede verso il cuore della montagna, si aprono davanti a noi delle porte che poi si chiudono repentinamente alle spalle dei visitatori, aumentando la sensazione di isolamento. Ci viene spiegato che ciò è necessario per non alterare il microclima delle caverne e soprattutto per difenderle dalla colonizzazione biologica delle specie ipogee.

  Il sistema di grotte, la cui estensione conosciuta è di circa 30 chilometri, è visitabile per un breve tratto di 2 chilometri. Al termine del cunicolo d’ingresso ci si trova nell’ampia sala Ancona, così chiamata in onore del gruppo di speleologi che l’ha scoperta. Il volume di questa cavità è talmente grande, che potrebbe contenere il nostro duomo. Qui ci viene raccontata la storia della sua scoperta.

Alcuni speleologi camminando sulla superficie erbosa della montagna notarono un anomalo movimento dell’erba. Essa era  risucchiata da un vortice  in una giornata di calma eolica. Osservando con curiosità ed attenzione notarono una piccola fessura. La ampliarono e scoprirono che sotto c’era una cavità. Si calarono e discesero in essa per circa un centinaio di metri raggiungendo un terrazzino roccioso. Da qui gettando verso il basso dei sassi si resero conto che il buio sottostante celava un’enorme caverna.

Meglio attrezzati, proseguirono l’esplorazione in un secondo tempo. Si trovarono nella grandiosa sala ornata da diversi tipi di stalattiti: quelle note a tutti che pendono massicce dalla volta, quelle sottili, perché giovani concrezioni, dette per la loro lucentezza e biancore capelli d’angelo, quelle piatte e pendenti, unite tra loro, chiamate a canne d’organo e quelle lamellari con un lato lungo fissato alla parete della volta, dette a vela. Ogni stalattite ha in corrispondenza la stalagmite, sua creatura, che si innalza verso l’alto più o meno artisticamente intagliata nell’attesa di congiungersi a sua madre formando sinuose colonne.

Per far comprendere la relatività del tempo e dello spazio, la guida ci fa osservare una stalattite che passa inosservata, perché esattamente allo zenith del nostro sguardo. Essa è frutto di migliaia e migliaia d’anni di gocciolamento dell’acqua e di deposito del carbonato di calcio in essa contenuto. La sua spettacolare lunghezza e grandezza appare completamente quando raggiunta quasi l’uscita dalla sala si alza ancora lo sguardo verso la sommità della cupola.

Dalla sala Ancona si passa alla sala del Duecento, così chiamata per la sua lunghezza di 200 metri.

Sul suo fondo  una serie di stalagmiti rossastre, perché contenenti ossidi di ferro, disegnano il profilo di un immaginario ed inquietante castello delle streghe.

Attraverso il Grand Canyon, che si transita passando su una passerella alta 80 metri sulla cavità sottostante, si giunge alla terza sala detta delle Candeline. Qui adagiate in un laghetto cristallino sembrano galleggiare tante lucide e luccicanti candeline di alabastro in un continuo richiamo di brillii e riflessi.

Pochi passi e ci  si trova di fronte a un grande plantigrado pietrificato nell’atto di dirigersi verso la fontana. E’ la sala dell’Orsa. E’ davvero curioso osservare come la natura sia capace di scolpire facendo credere vero ciò che invece è solo casuale… o forse, come diceva Michelangelo, la roccia contiene in sé già l’opera, all’artista il compito di sgrezzarla e mostrarla. Allora chi più della natura  può sapere cosa essa stessa contiene?

L’ultima sala è chiamata dei Granai, perché le stalagmiti ricordano i covoni di grano. La giriamo in tondo, ripercorriamo a ritroso il cammino fin qui fatto e siamo di nuovo all’aperto.

LORETO

 

E’ nel Lauretum, profumato bosco di allori che un tempo ricopriva il colle, che secondo la leggenda, gli angeli depositarono la Santa Casa di Nazareth. Più prosaicamente qui  i crociati la ricostruirono, salvandola dalla distruzione saracena, che era in atto in Palestina durante la cacciata dei cristiani.

  Quella antica e santa casa è qui conservata come una perla preziosa dentro uno scrigno altrettanto prezioso. I nudi mattoni che avvolgono con un semplice e caloroso abbraccio la Vergine sono rivestiti esternamente da un progetto marmoreo del Bramante.

  Questo cuore del santuario è circondato a sua volta da nove cappelle affrescate finemente e completamente. La grande ricchezza artistica, contrasta con la semplice essenzialità della santa casa e  rimanda al severo richiamo evangelico sulla preghiera, nel quale Gesù invita a non moltiplicare le parole, né ad ostentare la propria devozione.

RECANATI

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude....”


Immersi in una pagina di cultura, che tanto ci prese nella nostra adolescenza, emozionati, visitiamo Recanati, un borgo antico che, come molti sull’Appennino, si erge sul crinale montuoso allungato su cime allineate.  Esse, mentre dal basso sembrano dominare il territorio, disilludono chi le raggiunge, perché sempre sovrastate e cinte da quinte più imponenti.

      Adesso incominciamo a comprendere qualcosa di più del Leopardi. Egli che tanto ha sospirato la libertà dal borgo natio, a distanza di secoli è ancora lì, prigioniero di quelle torri, delle vie, dei palazzi, della campagna e del cielo, che sono stati la sua gioia e il suo tormento.

    Il “Leo” ci è diventato ancora più simpatico quando, visitando la sua casa, siamo entrati nella sua vera esistenza, negata e travisata nei libri della storia della letteratura.

   Casa Leopardi è ancora abitata dai suoi discendenti. Al primo piano del palazzo, un tempo destinato alla servitù, sono collocati la biblioteca del padre Monaldo e lo studio dove il poeta:


 

“… gli studi leggiadri

talor lasciando e le sudate carte

[…]

porgea gli orecchi al suon della tua voce[…]

un affetto mi preme

acerbo e sconsolato.”

 

    Infatti quel gracile ragazzo dall’intelligenza acuta e superiore, che a 15 anni, secondo il suo precettore non aveva più nulla da imparare e da solo ha appreso il greco e l’ebraico comparando la Bibbia scritta in latino, oppresso dal  padre, che nella sua realizzazione vedeva soddisfatte le sue aspirazioni rimaste tali, ci ha fatto compassione e in uno sguardo retrospettivo ci ha reso ancora più grati ai nostri papà, che pur spingendoci a dare il meglio di noi stessi hanno accolto e rispettato i nostri tempi, i nostri desideri, le nostre inclinazioni.

URBINO

      

Emozione, nostalgia, attesa, attesa, e ancora attesa. Questi gli intensi e forti sentimenti che hanno animato la giornata di Paola ad Urbino e, di conseguenza di Giuseppe, nella continua condivisione e comunione della loro vita.

   

Urbino, 

urbe antica, più di ogni altra città hai saputo conservare la tua struttura storica cresciuta nei secoli accostando in modo armonico i palazzi aristocratici ai sobri conventi e alle semplici case dei popolani.

Urbino, 

città del nostro tempo, più di ogni altra città hai saputo conciliare la crescita e la modernizzazione urbanistica e  strutturale celandola nella tradizione o esaltandola come fregio della tua dinamicità.

Urbino, 

città della cultura, hai preso un professore, un uomo, il papà importante e unico per Paola e lo hai reso grandeper tutti, in un ricordo continuo nella tua istituzione più prestigiosa.

                                                

Urbino, 

città del ricordo e della commozione, attendici.