ISLANDA 2017

    
    

IL SOGNO (ottobre 2016)

Sono molti anni che coltiviamo il sogno di perderci con lo sguardo dentro il cielo mutevole e immenso, sempre chiaro o sempre scuro, che si allunga verso un orizzonte infinito e subito dopo avvolge come un bozzolo, la ruvida terra, dalla pelle fredda e dal cuore caldo, la terra scolpita dalla sua storia geologica e tormentata dai continui sussulti tettonici, che la conservano giovane.
Il nostro sogno è l’Islanda, paese lontano da noi 3300 km. Irraggiungibile con il camper fino a quando il nostro periodo di ferie è stato limitato a causa degli impegni di lavoro.
Finalmente, quest’anno abbiamo raggiunto i fatidici quarantatré anni di servizio e l’età adeguata per entrare a pieno titolo nella così detta “terza età” e, come ha scritto il poeta Paul Valéry: “Il modo migliore per realizzare un sogno è quello di svegliarsi”.
Adesso noi siamo desti e il viaggio in Islanda non è più un pensiero immaginario, ma l’inizio di una solida realtà.

IL PROGETTO (novembre 2016)

Per noi progettare un viaggio non consiste soltanto nell’individuazione della meta, dell’itinerario, nella previsione dei tempi di percorrenza e delle soste, nella scelta delle tappe, nella localizzazione dei siti ambientali, storici e artistici di maggiore rilevanza, ma è anche iniziare a entrare nella cultura delle regioni o delle nazioni scelte, approfondendo la conoscenza della loro storia, delle loro tradizioni, delle usanze e dei costumi.
Quest’anno la meta prescelta ci richiede qualcosa di più. Dobbiamo prenotare il traghetto con largo anticipo, perché l’unico collegamento che l’Islanda ha con il continente europeo è con la Danimarca. La traversata ha una cadenza settimanale ed è assicurata da un’unica compagnia di navigazione la Smyril Line.
In questo mese di novembre, inizia la nostra ricerca sul sito della compagnia di un posto per il camper e di una cabina per noi, considerato che la navigazione dura quarantotto ore.
Pensiamo di essere in largo anticipo e di avere diverse possibilità di scelta. Invece, nelle date da noi ipotizzate, se c’è il posto per il camper, non c’è la cabina per noi e viceversa. Infine troviamo, ma il sistema si blocca nel bel mezzo della procedura di prenotazione.
Grazie a Eileen, la nostra nuora, che chatta con Jutta del call center della compagnia marittima, l’intoppo si risolve.
Partiremo da Hirstal, in Danimarca, il 17 giugno e dopo la sosta di un paio di giorni alle isole Faerøer sbarcheremo in Islanda il 22 giugno. Il ritorno sarà diretto con partenza dall’Islanda il 10 agosto.
Risolto il problema della prenotazione, iniziamo la vera preparazione del viaggio, leggendo alcuni diari di altri camperisti, avendo tra le mani un paio di guide turistiche del Paese e davanti agli occhi la sua carta geografica.
Ci stiamo anche per immergere nella lettura di due libri dei più grandi scrittori islandesi del XX secolo:

“Gente indipendente” di Halldór Laxness (1902-1998), Premio Nobel per la letteratura nel 1955 
e
 “Il pastore d’Islanda” di Gunnar Gunnarson (1889-1975), plurinominato al Premio Nobel.

Inoltre, abbiamo già letto il libro:

“Tutta la solitudine che meritate, viaggio in Islanda”, di Claudio Giunta e di Giovanna Silva, 


che ci ha regalato nostro figlio Simone.

     

IL SOGNO SI AVVERA ( 7-16 giugno 2017)

Partiamo verso il sole di mezzanotte, sotto quello di mezzogiorno, salutando i nostri amici con un selfie.
Il primo giorno di viaggio trascorre tranquillo. Affrontiamo l’intenso traffico italiano con l’entusiasmo di chi ha nel cuore una bella avventura. Percorriamo la sempre verde Svizzera con l’unica preoccupazione di rispettare gli stringenti limiti di velocità, che a tratti sono imposti in autostrada. A sera giungiamo a Lindau, dove pernottiamo nell’area camper.
Siamo in Germania, il paese di Schumacher e Vettel! Qui non abbiamo problemi riguardo ai limiti di velocità, perché quella nostra di crociera sta abbondantemente entro quelli stabiliti, dove ci sono.
Oggi ci attendono poco più di 500 km. Abbiamo fissato l’arrivo a Göttingen, nella sua tranquilla area camper, che sorge presso il centro sportivo.
Partiamo. La guida diventa subito piuttosto impegnativa. Le scorrevoli autostrade tedesche sono un ricordo. Ora sono ingolfate da un traffico camionale simile a quello italiano, che però rispetta il suo limite di velocità. I sorpassi sono obbligati: un dentro e fuori continuo, per lasciare spazio alle automobili, che viaggiano più veloci di noi e che soffrono ogni rallentamento.
Dopo la pausa pranzo, siamo costretti a fermarci in colonna per due ore, a causa di un grave incidente. I veicoli si allineano ordinatamente nella prima e terza corsia, per lasciare transitare, in quella di mezzo, i camion dei pompieri, le autolettighe e le auto della polizia, che giungono a grande velocità con le sirene spiegate. Dal cielo giunge anche un elicottero.
Il fastidio per questo inconveniente si trasforma in sollievo per non essere stati coinvolti. Prendiamo i nostri libri e ci immergiamo nella lettura, ottimo passatempo.
Arrivati a Göttingen, ci attende una sgradita sorpresa: l’area camper è occupata in ogni suo stallo. Viva internet! Troviamo un’altra area di sosta a Witzenhausen, una cittadina situata a 30 km a sud di Göttingen. Lì sostiamo e trascorriamo la notte.
Da Witzenhausen a Lubecca ci sono poco più di 300 km. Partiamo per tempo, ricordando le code bibliche, che abbiamo fatto alcuni anni fa intorno ad Hannover e Amburgo.
Scelta oculata. Anche quest’anno il traffico non si smentisce. Giunti a Lubecca, sostiamo presso il camping Lübeck. Alla reception, quando ci chiedono se abbiamo prenotato, un sudore freddo ci percorre la schiena. Per nostra fortuna ci assegnano una piazzuola, dove poter sostare per le tre notti che abbiamo previsto.
Non immaginavamo di trovare in questo mese così tanti turisti. I tedeschi, gli scandinavi, oltre ai soliti olandesi, vivono già la loro estate.
Con un temporale tanto improvviso quanto intenso il tempo ci dà il benvenuto. Piove fino a sera inoltrata, poi tutto si quieta e il ticchettio delle gocce, che cadono dal fogliame della quercia, che ci sovrasta, ci accompagna nel mondo dei sogni.
Con il bus n. 2 raggiungiamo il centro di Lubecca. La città è orgogliosa della sua origine, persino la targa automobilistica lo dimostra. HL è la sigla di Hanselstadt Lübeck: Lubecca città anseatica. Essa è stata fondata nel XII secolo e crebbe d’importanza per i traffici commerciali, che intratteneva con altre città dell’Europa settentrionale, diventando per esse un modello nella Lega Anseatica.
Entriamo nella città vecchia attraverso la Holstentor, la porta occidentale, costruita nel XV secolo. Il centro della città sorge su un’isola circondata da canali collegati con il fiume Trave. Sul canale, in prossimità della porta occidentale, si affaccia lo Salzspeicher, un insieme di edifici che un tempo immagazzinavano il sale, detto “oro bianco” al tempo del Medioevo.
Lubecca ha un aspetto austero. I suoi edifici, costruiti con mattoncini di colore rosso cupo e nero, le danno un contegno severo, che contrasta con la vita vivace e colorata, che anima le sue strade.
La piazza principale il Markt, dove si affaccia il Rathaus, il municipio, sarebbe più apprezzabile, se non fosse completamente occupata dalle bancarelle.
Molto bella è la Marienkirche. Al suo interno ammiriamo le arcate e le volte decorate con motivi floreali, il grande orologio astronomico e una particolare statua di san Giovanni apostolo. Egli ha in mano un calice da cui esce un serpentello. La leggenda dice che gli era stato offerto del vino avvelenato e che la piccola serpe uscendo dalla coppa, l’avvertì del pericolo mortale. Destano impressione le campane in pezzi, lasciate alla base del campanile, lì dove sono cadute a causa dei bombardamenti, che hanno raso al suolo la città, durante il secondo conflitto mondiale. Il nostro giro prosegue. Visitiamo la Jakobkirche, che ha un antico e grandioso organo poi il duomo, che ha un caratteristico orologio, nel cui centro il sole ha gli occhi che si muovono verso destra e sinistra scandendo il tic-tac dei secondi. Anche questa chiesa, pur essendo evangelica, conserva le immagini sacre della sua origine cattolica. Vicino al duomo, circondato da un parco con maestose piante secolari, sorge la chiesa cattolica. Prendiamo nota dell’orario della messa domenicale. Ora nel più classico “sü de chi giò de là” gironzoliamo tra le viuzze, perché una città la si comprende anche andando a vedere dove vivono i suoi abitanti. Scopriamo tranquilli e pittoreschi angoli, dove la vita scorre al riparo dagli sguardi indiscreti, ma non sfugge ai nostri.
Il giorno del Signore non poteva presentarsi meglio: splende un caldo sole nel cielo libero di nubi. Ci rechiamo alla chiesa cattolica per partecipare alla messa. Manca un quarto d’ora all’inizio della funzione. Troviamo la chiesa già gremita di tedeschi, vestiti della festa. Oggi è il giorno delle prime comunioni, così dice il cartello posto all’ingresso della chiesa. Ci sistemiamo su una panca nel corridoio museo adiacente alla chiesa e collegato con essa mediante una larga porta aperta.
In questo spazio dei cartelloni e delle fotografie descrivono la tragica storia della città dal 1933 alla fine della guerra. Sono esposte anche le gigantografie dei sacerdoti che sono caduti martiri per aver contrastato il regime sanguinario e razzista di Hitler. Dal cuore ci scaturisce una preghiera:

 Uniti nella tragedia, 
e nel chiedere perdono, 
uniti nel desiderio di pace, 
t’invochiamo Padre di donarla a noi e al mondo intero.”


Nella pasticceria J. G. Niederegger, famosa per la produzione di marzapane, pranziamo: una fetta di torta e una bevanda calda ci soddisfano.
Nel pomeriggio percorriamo la Königstrasse indirizzandoci verso la porta settentrionale. Visitiamo l’Heiligen Geist Hospital. E’ l’ospedale più antico della Germania. Costruito nel 1246, è rimasto in funzione fino al 1972. Varcato il portone d’ingresso, ci troviamo nella Kirchenhalle, una galleria gotica con pareti affrescate e vetrate istoriate. Attraverso un piccolo passaggio entriamo nella sala dell’ospedale, che all’inizio del XIX secolo è stata suddivisa in piccole camerette.
Il nostro cammino prosegue fino al castello. Poi, ritornando verso la porta Holstentor, indugiamo in alcune viuzze per conoscere ancora qualcosa della città.
Poco dopo il nostro rientro in campeggio arriva vicino a noi un chiassoso gruppo di camper vicentini. Hanno esposto unappariscente adesivo: Via Querinissima 1432-2012. Rost-Sandrico-Venezia, con le bandiere della Norvegia e dell’Italia. Siamo curiosi, su internet ci informiamo. Querini è stato un navigatore, che nel 1431, mentre navigava verso il porto di Anversa, naufragò. Lui e pochi altri marinai furono portati dalle correnti alle isole Lofoten in Norvegia. Soccorso dagli abitanti di Røst, abitò con loro per un anno, poi con il dono di sessanta stoccafissi, merluzzo essiccato, ritornò a Venezia. Questa via è stata riscoperta in epoca recente dalla "Confraternita del baccalà alla vicentina", così i veneti chiamano lo stoccafisso. Nel 2012 questo gruppo ripercorse via terra con i camper la via, entrando in contatto con le popolazioni locali e lasciando come ricordo le ricette venete per cucinare il merluzzo.

Lasciamo Lubecca e percorriamo gli ultimi chilometri in territorio teutonico lungo l’autostrada, poi superato il confine con la Danimarca riprogrammiamo il navigatore per seguire solo le strade ordinarie.
Spira un vento fortissimo. La guida richiede prudenza e attenzione. A nostro favore c’è il traffico molto fluido. Sostiamo per la notte nel campeggio di Ribe, che sconsigliamo, perché non dà la possibilità di caricare e scaricare l’acqua in modo agevole. Con una passeggiata di due chilometri lungo la strada ciclo-pedonale, raggiungiamo il centro della cittadina. La troviamo molto cambiata rispetto a quindici anni fa. La sua trasformazione ha in gran parte snaturato il connubio poetico tra la sua architettura e le sue tradizioni.


Durante la notte il vento si è un po’ placato, poi riprende vigoroso con la luce dell’alba. Ripartiamo e continuiamo a risalire versonord la penisola dello Jutland, seguendo il percorso che costeggia la sua costa occidentale. La pausa caffè la facciamo a Esbjerg, ai piedi di quattro imponenti omoni di pietra bianca, che intirizziti guardano con occhi tristi verso il mare. Sembrano naufraghi, che scrutano l’orizzonte nella disperata speranza di vedere riemergere e avanzare ancora qualcuno.
Proseguiamo lungo la strada stretta tra le dune costiere e la brughiera acquitrinosa. Nella brughiera, accanto alle vecchie fattorie, costruite con mattoncini rossi, aperte sul mondo con piccole finestre dai bianchi infissi e coperte dai caratteristici tetti di paglia, pascolano placide mandrie bovine con numerosi vitelli all’inizio dello svezzamento.Tra le dune sono presenti moderni e colorati cottages, case vacanza con zona a giorno completamente verandata.

A Hvidisande, ai piedi di una duna, sostiamo.Scavalchiamo la duna, scendiamo su bianco arenile e percorriamo uno dei moli, che chiudono la bocca del porto peschereccio. Le grandi onde, che s’infrangono schiumeggiando sugli scogli artificiali, ci inumidiscono e liberano nell’aria la salsedine. Dopo aver pranzato, con un altro breve tragitto raggiungiamoilfaro diBovbjerg. Rosso e possente domina un’alta falesia di terra. Poi nel campeggio del paesino ci fermiamo per la notte.

Oggi percorriamo l’ultima tappa di avvicinamento al traghetto. Il viaggio prosegue per un tratto ancora immerso nella laboriosa campagna tra erbai e campi coltivati con essenze foraggere: colza, soia, mais. A un tratto siamo obbligati a fermarci. Il ponte levatoio sul quale dobbiamo transitare è innalzato verso il cielo, per lasciare passare una piccola barca a vela. Pochi minuti dopo si riabbassa e il nostro tragitto prosegue in un ambiente completamente diverso. Sembra di essere nelle Valli di Comacchio. Ampi specchi d’acqua, acquitrini e paludi lambiscono i bordi della strada. Ci sono dei cartelli che indicano la biodiversità dell’avifauna, però noi vediamo solo alcune specie di gabbiani.

Lasciamo questa zona e la strada statale e ci immettiamo in un territorio boscoso, che è una riserva naturalistica. Ora le strade sono più strette e il traffico è quasi inesistente. In un’area pic-nic consumiamo il pranzo. Poi torniamo nuovamente sul mare e ci fermiamo a Hirtshals nel camping omonimo. Qui ci attendono due giorni di riposo prima dell’imbarco.

    

VERSO LE ISOLE FAERØER ( 17-18 giugno)

Cielo limpido, sole caldo, aria fresca, vento a regime di brezza, così si presenta la giornata della nostra partenza per le isole Faerøer. Ci alziamo alle ore 8.00. Terminata la colazione, prepariamo il necessario per la notte e il giorno che trascorreremo sulla nave Norröna.

L’IMBARCO
Alle ore 11.30 arriviamo all’imbarco. Giungono anche dei camperisti tedeschi. C’è circa un’ora d’attesa prima che si aprano i cancelli del check-in. Pranziamo con un paio di panini e della frutta.
Nel frattempo la coda dietro il nostro camper si allunga e se ne formano altre due vicino alla nostra. Siamo gli unici italiani. Arrivano anche numerose automobili e motociclette.
Alle ore 12.15 passiamo il check-in. Ci assegnano la cabina 6316, dove la cifra sei indica il decks e 316 il numero della cabina. Ci piace il numero della cabina, termina con la cifra sedici, il nostro numero, la sentiamo già nostra!
Ora inizia l’attesa. Alle ore 12.30 entra in porto il traghetto. Lentamente approda. Ancora più lentamente apre il suo grande portellone. Dalla stiva gli addetti portuali iniziano a scaricare i rimorchi porta containers: uno, due, tre, ...dieci ...tanti, tantissimi. E’ un’operazione che sembra non avere fine. Intanto familiarizziamo con la coppia di francesi allineati nella fila alla nostra destra. Vengono dalla regione dell’Aquitania. Lui è figlio di emigrati italiani, ma non parla la nostra lingua. Ci dice che ha dei cugini a Venezia e altri parenti nella zona del lago di Garda. Lui e sua moglie sono sposati da quarantacinque anni, hanno due figli e tre nipoti.
Intanto dalla pancia della balena bianca continua il flusso in uscita: escono le prime automobili, qualche camper e ancora containers.
Un addetto della Smyril Line, la compagnia di navigazione, passa tra i mezzi in attesa e invita i viaggiatori non guidatori, a trasferirsi sul pullman, che li condurrà all’imbarco. Lascio Giuseppe e il camper al loro destino e mi avvio verso la mia personale avventura, non senza un grande batticuore per il timore di non capire eventuali indicazioni. Poi tutto mi risulta più facile di quello che immaginavo. Alle ore 14.20 sono in cabina. Giuseppe invece è ancora nel piazzale in attesa di imbarcarsi col mezzo. La partenza del traghetto è prevista per le 15.30, ma alle ore 15.40 stanno salendo ancora mezzi e passeggeri. Dopo cinque minuti Giuseppe m’invia un messaggio che dice di essere ancora in attesa, ma che ormai sul piazzale sono rimasti solo pochi mezzi. La mia ansia si acquieta. Finalmente alle ore 16.15 Giuseppe entra in cabina.

LA TRAVERSATA
Siamo in tanti sul ponte di poppa, pronti a immortalare l’attimo in cui la nave si stacca dalla banchina. L’attesa si prolunga, alcuni si stancano e lasciano il posto ad altri sopravvenuti.
Altri containers sono imbarcati. Le motrici, agili e scattanti, li agganciano sul molo, dove sono in attesa. Sembrano tirare e spingere scatolette, invece movimentano diverse tonnellate con grande precisione.
Ed ecco il momento tanto atteso. Il suono prolungato della sirena d’allarme dà il via alla procedura di partenza. Si chiude il grande portellone, che sigilla la stiva, si alza il rombo dei motori, gli addetti del porto sganciano le gomene di ancoraggio, la Norröna si stacca dalla banchina.
Questa grande nave, costruita nel 2003, deve percorrere 470 miglia marine, pari a 846 km, per giungere a Thórshaven, suo approdo nelle isole Faerøer. Inizialmente la direzione è verso sud ovest, perché occorre uscire dallo Skagerrat, lo stretto che separa la Danimarca dalla Norvegia. Raggiunto il promontorio più meridionale della penisola scandinava, la direzione cambia. La nave punta la sua prua verso nord ovest. Il mare, che nello stretto era un po’ mosso, si placa. La Norröna procede a una velocità di venti nodi, non molto lontana dalla costa norvegese. Le ore passano, ma il sole è fisso nel cielo, perché lo inseguiamo verso ovest. La costa scandinava ora s’intravede appena dietro il velo dell’umida nebbia, che si alza dal mare, mentre i crinali delle montagne si stagliano neri e nitidi contro il cielo biancastro.
Intravediamo la sagoma di alcuni fari, che presidiano l’imbocco dei fiordi.
Alle ore 18.00 si apre il dinner, dove abbiamo prenotato la cena. Attendiamo ancora mezz’ora, ma la sorpresa è in agguato. Sulla nave vige l’ora delle Faerøer, che è spostata di un fuso rispetto la Danimarca. Ahinoi, sono solo le 17.30! L’attesa di un’altra ora è però ricompensata da un’appetitosa offerta culinaria: salmone al vapore, costolette di agnello in agrodolce, riso pilaf, patate lesse, verdure miste cotte al vapore, insalata.
Intanto la terra è ruotata più velocemente rispetto al nostro spostamento occidentale. Il sole fa il suo corso. Adagiandosi nella coltre nerastra, che chiude l’orizzonte, spegne la sua luce, mentre si accende quella dei fari costieri.
Prima di ritirarci per la notte, trascorriamo un po’ di tempo sul più alto ponte di poppa. Riparati dal vento, il nostro sguardo si perde nel mare, che si sta vestendo con i colori della notte.

 

Ci alziamo alle ore 8.00, dopo una notte tranquilla, cullati dal lento rullio della nave e dal sommesso rumore del suo motore.
Ci prepariamo. La colazione è a buffet e noi ne approfittiamo con un “abbuffet”, perché non abbiamo prenotato il pranzo. Poi torniamo in cabina e alle ore 10.00 in comunione con la nostra comunità parrocchiale di san Nicolao della Flüe, guidati da La Tenda, il libro diocesano con le letture liturgiche del giorno, celebriamo la festa domenicale leggendo la Parola di Dio, la meditazione e recitando alcune preghiere.
La nostra mattinata continua con la scoperta di altri spazi della nave, la lettura dei nostri libri e l’applicazione nei nostri “compiti delle vacanze”.
Siamo ora in prossimità delle isole Orcadi, il cui profilo si staglia alla sinistra della nave. Il cielo, finora coperto da un sottile strato di nubi grigiastre, si apre e il sole sparge la sua sbiadita luce giallognola sul Mare del Nord, che miscela la sua acqua con quella del Mare di Norvegia. E’ mezzogiorno. La lauta colazione mattutina ci consente di non pranzare.
Sull’ultimo scoglio settentrionale delle isole Orcadi un faro tutto bianco è la sentinella che cura il Mare di Norvegia.
Ora la Norröna fende onde ben più vigorose. Beccheggia. Paola soffre un po’ per il suo problema di equilibrio. Rimaniamo nel salone ancora per poco tempo, poi quando comincia il Bingo ci ritiriamo in cabina. Semisdraiati sul letto ci sembra di essere come Giacomo, il nostro nipotino, cullati dentro la carrozzina. Accendiamo la televisione e guardiamo il meeting di atletica leggera di Stoccolma.
In prossimità delle isole Faerøer il moto ondoso si calma. Approdiamo puntuali alle ore 22.00. Siamo fortunati, perché nonostante che la stiva sia a fondo cieco e noi abbiamo il camper sul fondo, è liberata per prima la nostra corsia, così sbarchiamo quasi subito. In poco più di mezz’ora siamo sulla terra ferma. Ci dirigiamo in campeggio, seguendo le indicazioni presenti lungo la strada. Lo troviamo aperto, perché nel giorno di approdo della Norröna la reception accoglie gli ospiti fino oltre le ore 23.00. Ci sistemiamo, prepariamo il letto con il piumone pesante e... buona notte!

 

FAERØER (19-20 giugno)

Trascorreremo due giorni alle isole Faerøer prima di riprendere la navigazione verso l’Islanda. Le diciotto isole che formano l’arcipelago si presentano come dei lunghi scudi basaltici paralleli tra loro. Esse precipitano verso il mare con alte scogliere, solcate da rivoli e torrenti, che sfociano sul fondo di fiordi più o meno profondi. Le isole Faerøer si trovano a una latitudine di 62° N. Qui il clima all’inizio dell’estate corrisponde a quello che in Lombardia c’è alla fine dell’inverno. La temperatura è intorno ai 13°C. Il vento incessante con le sue folate violente accentua il senso di freddo. Questo continuo flusso d’aria sospinge l’umidità del Mare di Norvegia verso terra, pertanto gli scrosci di pioggia, brevi e intensi, arrivanoimprovvisi e lasciano dietro di sé un cielo azzurrino. I prati sono di un bel verde brillante e la scarsa vegetazione arbustiva è in fiore. Le pecore, dalle quali l’arcipelago prende ilnome,Faer significa pecore e Øer vuol dire isole, pascolano ovunque: lungo la carreggiata stradale, sui declivi erbosi, lungo la costa dei fiordi, là dove si appiana sul mare.
Il territorio, pulito e ordinato, è costellato di piccoli paesi, dalle casette colorate con vivaci colori, alcune hanno il tetto erboso.
La capitale Thórshaven è poco più grande di un quartiere milanese. Ha un caratteristico centro storico in prossimità del porto. Il faro sul piccolo promontorio, che chiude un lato del porto, sorge dove nel XVI secolo fu costruita una fortezza per difendere la città da un attacco turco. In epoca recente la fortezza è stata la sede del presidio britannico, durante il secondo conflitto mondiale.

BENVENUTI IN ISLANDA (21 - 22 giugno)

Non vogliamo essere blasfemi, ma per chi imbarca un mezzo sulla Norröna vale il detto evangelico: “Beati gli ultimi, perché saranno i primi.” Così è stato ancora per noi. Paola ha atteso in cabina Giuseppe per quasi due ore, però al momento dello sbarco, siamo stati tra i primi a toccare la terra d’Islanda.
L’unico porto, che tiene i collegamenti con il continente, è quello di Seydisfjördur. E’ situato in fondo a un profondo fiordo lungo quasi venti chilometri, chiuso da aspre pareti.
L’Islanda si presenta ai nostri occhi come dice il suo nome: terra del ghiaccio. Infatti, le montagne che stringono in una morsa il fiordo sono ricoperte da nevai.
Dal porto di sbarco seguiamo l’unica strada possibile per penetrare un po’ all’interno. Superiamo un passo e troviamo ai nostri piedi un ambiente particolare. La vallata è ricca di vegetazione arbustiva e arborea, è solcata da un lago glaciale dalla sua tipica e inconfondibile forma allungata. Dove esce l’emissario, sorge la cittadina di Egilsstadir. Qui la sosta è obbligata per quasi tutti i camperisti. Occorre rifornire la cambusa, date le restrizioni cui sono soggetti i generi alimentari. Il discount Netto è ben fornito anche di prodotti di marca. Tuttavia, se escludiamo gli ortaggi e la frutta, non ha quasi prodotti freschi. Acquistiamo tra l’altro le ottime mele del Trentino. Il conto finale è salato, perché tutto costa il doppio rispetto ai costi in euro.
Noi, avendo davanti una vacanza molto lunga, abbiamo bisogno anche della bombola del gas. Accanto al Netto c’è il distributore di benzina, che vende le bombole e tiene in consegna quella proveniente dal nostro paese. La etichetta e ce la riconsegnerà, insieme alla cauzione, quando ripasseremo di qua prima dell’imbarco.
Completate queste necessarie incombenze, puntiamo il camper verso Borgarfjördur, l’ultimo dei fiordi orientali, particolarmente ricco di avifauna. La strada è piuttosto lineare e segue il corso dell’emissario del lago. La grande vallata è un’immensa brughiera con rare fattorie.

Alcuni suoi tratti sono sterrati. Impegnativo è quello che, con alcuni tornanti scavalca il promontorio, che chiude a destra l’ampio fiordo. Nella discesa ci capita il primo guaio. Una pietra tagliente presa di striscio squarcia lo pneumatico anteriore destro. Ci fermiamo. Il danno è grave. La gomma è da buttare. Pensiamo di chiamare, tramite l’assicurazione, il carro attrezzi, ma alla sfortuna si aggiunge altra sfortuna. Lì dove siamo non c’è campo. Allora Giuseppe prende il cric, si arma di coraggio, recupera tutta la forza possibile e inizia faticosamente la manovra di sollevamento del camper. Intanto Paola ferma un’automobile di passaggio per chiedere se al paesino dove siamo diretti, c’è il meccanico. Sull’automobile ci sono due anziane signore. Sono delle turiste, non sanno se c’è il meccanico, però si offrono di portarci fino al villaggio. Decliniamo l’offerta, perché il piccolo paese dista quasi sette chilometri. Se non dovesse esserci il meccanico, ci metteremmo troppo tempo per tornare indietro. Passa un po’ di tempo prima che sopraggiunga un’altra macchina. Paola si sbraccia, l’automobile si ferma. La guida una giovane signora. Capisce la situazione. Anche lei non sa se c’è il meccanico, però ci dice che nel caso lo manda. Poco dopo dalla direzione opposta arriva “un angelo”. Senza la nostra segnalazione ferma il suo pulmino. Scende una robusta e alta signora. Si avvicina al nostro mezzo e con grande perizia aiuta Giuseppe a completare il lavoro. La ringraziamo. Ci dice che suo marito, che è meccanico, le ha insegnato il mestiere. Al termine del lavoro non vuole essere ricompensata. Ci sorride, ci saluta e, nonostante ci abbia regalato mezz’ora del suo tempo, se ne va serena.
La gente islandese ci ha già dato un esempio di cordialità, disponibilità e generosità.


Giunti a Borgarfjördur posteggiamo nell’area camper, poi facciamo una passeggiata. Vediamo un essiccatoio per il pescato, che però ha esposto solo le teste dei pesci. Il grido degli uccelli è il richiamo che fa iniziare a Giuseppe la caccia fotografica. Immortala la sterna artica, il chiurlo piccolo, la beccaccia, la pittima reale, il gabbiano testa nera e alcuni palmipedi.La sterna artica è un grazioso uccello col corpo dalpiumaggio biancastro, il capo nero con il becco arancione, come le zampe e la coda bianca tipo quella della rondine. Sembra piuttosto litigiosa. Rincorre i propri simili emettendo un verso rauco, che termina con una stridente nota acuta. Ci fermiamo a osservarla. Si ferma in volo sopra la nostra testa e poi scende in picchiata per spaventarci. E’ la sua tecnica di difesa del nido, che ha costruito nell’erba. Questo uccello, amante del freddo e della luce, detiene il record migratorio. Ogni anno si trasferisce dalle zone antartiche a quelle artiche, coprendo una distanza di 96000 km.
Il chiurlo piccolo è un trampoliere. Ha il becco lungo e sottile, leggermente arcuato verso il basso. La sua livrea, marrone screziato, lo mimetizzabene nell’erba. Ne vediamo uno fermo sopra una roccia affiorante. Giuseppe si avvicina con cautela. Il chiurlo non si alza in volo. Emette una sorta di pigolio. Arriva in volo un altro chiurlo. Entrambi, pigolando, zampettano nell’erba e si allontanano in una direzione. E’ una mossa in difesa della loro nidiata, che alla base del masso giace silenziosa nelnido. Ci suscita tenerezza questa semplice, acuta e istintiva cura parentale. Ci allontaniamo senza disturbare i pulcini.
La pittima reale è a sua volta un piccolo trampoliere. Vive nelle zone fangose o paludose del mare o delle acque dolci. Il suo becco lungo e sottile è arancione alla base e nero in punta. La avvistiamo sul greto del torrente. La coppia è nel nido. Quandociavvistano il maschio, per proteggere la femmina in cova, lascia il nido e si avvicina a noi, ostentando il suo petto dal piumaggio arancione.
Tornati al villaggio, visitiamo la piccola chiesa di legno bianco. A ornamento dell’altare c’è una pala dipinta dal più famoso pittore islandese Jóhannes S. Kjarval. Rappresenta Gesù nell’atto di fare il Discorso della montagna. Fanno da sfondo le scogliere del fiordo.

 

 

SE PIOGGIA E VENTO... (23-25 giugno)

Da questa notte la pioggia intensa e il vento forte non abbandonano questo angolo di mondo. Ci alziamo tardi. C’è anche la nebbia a imbruttire il territorio. Decidiamo di non muoverci e non siamo i soli ad avere scelto un giorno di ferma. La strada sterrata del valico è senza protezioni. Affrontare quei tornanti a strapiombo sarebbe pericoloso. Siamo ancora un po’ scossi per la disavventura di ieri. Forse un giorno di riposo ci farà bene. Che fare? Come ha scritto Tiziano Terzani:

Ho scoperto prestissimo che i migliori compagni di viaggio sono i libri: parlano quando si ha bisogno, tacciono quando si vuole silenzio. Fanno compagnia senza essere invadenti. Danno moltissimo, senza chiedere nulla”.

Ci immergiamo nella lettura. Fa freddo. Questa mattina sul camper la temperatura è di 10°C. Ci copriamo bene e accendiamo la stufa regolandola sui 19°C. Oggi è giornata da polenta e salsicce, ma la nostra cambusa non è fornita di tali leccornie. Paola prepara come pranzo una calda minestra di pasta e fagioli, anche questo è un piatto nostrano!
Le ore passano. Il tempo è determinato nella sua crudezza. Tutti sono tappati nel proprio mezzo. E’ surreale, ci troviamo a distanza di un paio di metri gli uni dagli altri e regna il silenzio assoluto. Pomeriggio di sola lettura e... leggete, leggete, trascorriamo la serata giocando a scala quaranta. Un avvenimento eccezionale, nota l’istintiva repulsione di Giuseppe per le carte, che costringe Paola a fare i solitari. Giuseppe è premiato dalla fortuna, o meglio dalla bravura: vince la partita!
Anche la notte trascorre sotto la tempesta di acqua e vento e il nuovo giorno si conferma nella continuità meteorologica. Le previsioni danno il miglioramento da domani. Decidiamo per un altro giorno di pausa, confortati dalla scelta analoga di quasi tutti gli altri camperisti.
Alle ore 10.00, bardati come dei palombari, usciamo per raggiungere il market. La cambusa scarseggia, mancano il pane e le proteine. L’agognato emporio, segnato sulla guida, non lo troviamo. Chiediamo informazioni all’unico caffè del villaggio. La barista ci dice che in questo borgo di centoventi anime lo smercio alimentare c’è solo il lunedì. Di certo non moriremo di fame. Carboidrati e vitamine non mancano: pasta, verdura e frutta ci daranno senz’altro le calorie necessarie.
Nella notte la pioggia intensa finalmente cessa, mentre il vento alterna folate violente a soffi più leggeri, che portano con sé ancora un po’ di acquerugiola. Secondo il nostro programma oggi, domenica, avremmo dovuto svegliarci nel camping di Egilsstadir, la cittadina da cui siamo partiti per raggiungere questo incantato fiordo. Lì, di mattina avremmo partecipato alla messa.
Alle ore 8.30 c’è fermento nell’area camper: i diversi equipaggi stanno, come noi, preparandosi alla partenza. Guten Morgen, diciamo ai tedeschi, “buon ciorno” è la loro risposta. Partiamo non senza un po’ di ansia per tutto lo sterrato che ci attende, senza neppure avere la ruota di scorta.
Tre giorni di pioggia violenta hanno lasciato il segno sulla strada. Numerose sono le buche, quasi tutte colme di acqua, quindi di esse non si coglie la profondità. Bisogna inoltre tenere d’occhio le pietre, cercando di evitare quelle che sembrano più aguzze e taglienti. Saliamo lentamente verso il passo, che tiene ancora aggrappato a sé dense nubi gonfie d’acqua. Alcune pecore ci trotterellano davanti. Le madri con le mammelle turgide di latte sono seguite dai loro agnelli. Il panorama sfoggia i suoi migliori colori. Dalle nude e rosse rocce delle montagne scendono scroscianti innumerevoli ruscelli. Questi, raggiunto il verde declivio, lo solcano saltellando tra un masso e l’altro e si distendono in ampie pozze. Dall’alto del valico osserviamo la brughiera. Tre giorni fa era una verde prateria tagliata in due dal serpeggiante fiume. Oggi è un’immensa palude dove gli specchi d’acqua diamantini circondano pochi isolotti.
Giunti a Egilsstadir, provvediamo alla dispensa e nel pomeriggio sfruttiamo la lavatrice e l’asciugatrice del camping. Poi dopo aver celebrato la liturgia della Parola, andiamo a conoscere la città. La prima tappa è la chiesa cattolica. Sorpresa positiva! Nella cappella, ricavata in una farmacia dismessa, si sta celebrando la messa. E’ terminato l’offertorio. Ci fermiamo. La messa è in polacco. Compresi noi sono presenti otto fedeli adulti e un bambino.
Al termine della celebrazione completiamo la nostra passeggiatina. Egilsstadir è una cittadina moderna. E’ stata fondata nel 1944. E’ il punto di riferimento per i diversi servizi per i piccoli villaggi e le fattorie sparse di un vasto circondario e speriamo anche per noi, che dobbiamo cambiare la ruota di scorta.

 

LAGARFLJÓT E HENGIFOSS (26 giugno)

Ci alziamo alle ore 8.00. Il cielo libero da ogni tipo di nube ha consentito al suolo di riversare nell’aria il calore accumulato ieri. Fa freddo, anche sul camper. Tuttavia questo sole mattutino ci rallegra e sembra una buona premessa per la gita che abbiamo programmato.
Prima, però, c’è l’emergenza da affrontare. Ci rechiamo dal gommista nella speranza che abbia lo pneumatico nuovo per la nostra ruota di scorta. Alle ore 9.00 può iniziare la nostra gita.
Con il camper a posto ci immettiamo sulla strada nazionale R1 nel senso orario. Dopo una decina di chilometri la abbandoniamo e, deviando a destra, iniziamo a costeggiare il Lagarfljót, il lago dalle acque opache e scure provenienti dal più grande ghiacciaio del Paese, il Vatnajödgardur. Forse proprio per questo suo colore inquietante e per la corrente che lo attraversa è interessato da una leggenda. Si dice che nel suo abisso viva un mostro: un enorme serpente dal capo simile a quello di un dinosauro. Il lago è lungo 35 km e largo solo 2,5 km. La sua massima profondità si aggira intorno ai 100 metri.
La strada lo segue dall’alto immersa in un ambiente da favola. E’ circondata da boschi di conifere il cui sottobosco è un’estesa fioritura di lupino dell’Alaska. Questa pianta erbacea, importata negli anni quaranta del secolo scorso, fiorisce proprio in questo mese colorando di azzurro violaceo le vaste brughiere. Superato il ponte, che sta all’inizio del lago, posteggiamo il camper e iniziamo la camminata verso la cascata Hengifoss. Il tragitto è breve, solo due chilometri e mezzo.
Il sentiero s’inerpica ripido,poi raggiunto l’altopiano, prosegue con minore pendenza.
La cascata si vede in fondo alla gola, raccolta in un circo, sembra invitare a braccia aperte chi sta salendo. Il fiume, dopo il grande salto, scorre schiumeggiando in un profondo canyon, chelui stesso ha intagliato, erodendo le rocce basaltiche. Alte ed eleganti sono le brune colonne rocciose, ricordo di un’antica attività vulcanica. Ci addentriamo nella gola fino a trovarci di fronte la cascata. Interessante è il quadro roccioso che fa da cornice algetto d’acqua. La parete, alta 118 metri, è formata da fasce parallele di diverso colore e stratificazione.
Alte e verticali sono le brune colonne basaltiche, la cui forma, spesso esagonale, è dipesa dalla superficie di solidificazione della lava. Bassi e orizzontali sono gli strati formati dall’argilla e dal ferro. La roccia metallifera a contatto con la lava acida si è ossidata colorandosi di rosso mattone. Davanti a tanta bellezza rimaniamo incantati e, immersi in questo piccolo universo, che sembra creato per noi, viviamo una gioia immensa. Giuseppe s’impegna nella fotografia, Paola osserva quel flusso continuo, formato da innumerevoli gocce, ciascuna con il suo destino. Alcune sembrano avere paura di buttarsi nel vuoto e scivolano silenziose lungo la fredda e ruvida roccia. La maggior parte si getta con un urlo fragoroso. Altre sembrano sciami di moscerini, che volteggiano senza sosta fino allo sfinimento.
A toglierci dall’incanto ci pensa una nube passeggera. Inizia a piovere. Indossiamo le giacche impermeabili e iniziamo la discesa. Poco dopo la pioggia cessa. Il sole splende nelle goccioline che bagnano il candido camedrio alpino e le goccioline spariscono rapidamente nel sole.
Tornati al camper, pranziamo, poi ci rechiamo al centro visitatori, lì recuperiamo del materiale informativo e ritorniamo al campeggio di Egilsstadir.

 

DA ORIENTE A SETTENTRIONE (27 giugno)

Lasciamo Egilsstadir e le verdi vallate orientali. Ci immettiamo sulla R1 e la seguiamo in senso antiorario, diretti nella regione del nord. Superato il Lagarfljót, la strada sale e valica un crinale, che ci porta sul fondo di un altro fiordo. Transitiamo in un verdeggiante territorio quasi completamente disabitato, dove le pecore madri e i loro agnelli brucano movendosi su vasti pascoli.Questa è la brughiera descritta da Laxness nel suo libro “Gente indipendente”.

La strada segue in contro corrente il corso del fiume Jökulsá a fjöllum. Negli acquitrini formati dai torrentelli suoi affluenti, vivono colonie di anatre e oche selvatiche. Saliamo ancora e superiamo un altro crinale.
Il nuovo ambiente ci sbalordisce: ci troviamo in un deserto. Rocce scure, pietre aguzze, terra rossa è tutto ciò che ci circonda a perdita d’occhio. L’orizzonte è chiuso a 360° dai margini della smisurata caldera, nella quale viaggiamo. Improvvisamente vediamo salire in cielo delle folate didenso vapore.
E' il Namafjall, una zona attiva dal punto di vista vulcanico. Siamo su unacostola della dorsale Medio Oceanica Atlantica, sui margini delle due placche, euroasiatica e americana, che da milioni di anni si stanno allontanando tra loro. Questo lunghissimo vulcano lineare sottomarino in continua eruzione, espande la crosta oceanica, corruga gli accumuli laviciprecedenti fino a farli emergere in superficie.
Ci fermiamo. Il nostro cuore è un vulcano di emozioni. L’odore acre dello zolfo impregna l’aria. Qua e là dal suolo fuoriescono getti gassosi, che liberano nell’aria gas sulfurei e lasciano depositato lo zolfo. Intorno alle solfatare, altri crateri ribollono i fanghi. Tutto ciò che ci circonda è talmente bello e nuovo per noi, che non finiremmo mai di scattare fotografie e girare brevi filmati. Ripreso il viaggio, dopo pochi chilometri ci fermiamo sul lago Mývatn al camping Bjarg, caro e senza i servizi necessari ai camper. La posizione è però stupenda: sulla riva di un bel lago vulcanico.

 

 

ASKJA: STORIA DI UN VULCANO (28 giugno)

Oggi ci alziamo presto, perché la partenza per l’Askja è alle ore 7.45.Abbiamo prenotato lagita presso l’agenzia Askjatours, perché il percorso da compiere per raggiungere l’Askja è su una strada sterrata catalogata F, cioè percorribile solo con mezzi 4x4.
Alle ore 7.30 arriviamo nel piazzale dell’ufficio turistico, luogo dell’appuntamento.Il bus attrezzato per affrontare la difficile strada è già presente con alcuni turisti a bordo. Ci accolgono Oddrún Halldóra e l’autista.
Saliamo e ci accomodiamo sui sedili vicini alla portiera, che hanno una buona visuale verso l’esterno. Arrivano altri turisti: un gruppo francese, tre italiani, degli olandesi e degli islandesi. Puntuali partiamo. La guida si presenta e in inglese dà il benvenuto e alcune informazioni pratiche. La prima è un obbligo: allacciare le cinture di sicurezza.


Il bus percorre venticinque chilometri sulla R1. Vediamo il paesaggio visto al nostro arrivo: il campo geotermico e subito dopo le solfatare.
Poi con una secca curva a destra imbocca lo sterrato F88, che dopo cento chilometri raggiunge l’Askja. L’ambiente è completamente desertico ed è un continuo susseguirsi di campi di lava, che si estendono per 4440 km2. Il primo campo lavico è in parte già coperto dalla vegetazione erbacea. Inizialmente la strada è un lungo rettilineo dal fondo compatto e piuttosto regolare. Più avanti taglia un’estesa zona caratterizzata da cordoni basaltici. Giuseppe commenta: “Sembrano enormi buasse!” Per noi milanesi “buasse” sono le “torte” delle feci delle mucche, che si trovano nei pascoli e suisentieri alpini.Qui la strada s’insinua con curve e contro curve tra questi grandi ammassi rocciosi, erosi dal vento, levigati dalle piogge, dalla neve e dal ghiaccio. Come per miracolo in mezzo a questa terra inospitale, da una grotta scaturisce dell’acqua, che con un piccolo salto inizia a formare un torrentello. Dove c’è acqua c’è vita. Presso la sorgente c’è la prima base dei rangers del Parco Nazionale Vatnajókull. La raggiungiamo guadando il torrente.
Il bus lentamente scende in acqua, procede a passo d’uomo eriprende la strada sulla riva opposta, poi si ferma. E’ già trascorsa un’ora dall’inizio del viaggio.
La guida ci concede venti minuti di pausa. Intorno al corso d’acqua la vegetazione è rigogliosa. Conosciamo meglio Oddrún.La signora parla anchel’italiano: ha studiato per quattro anni arte orafa a Firenze e lìvi ha abitato per alcuni anni dopo gli studi prima di ritornare in Islanda. Paola le chiede delleinformazioni su alcuni fiori fotografati nei giorni scorsi e che sono presenti anche in quest’oasi. Oddrún le mostra la carta dei fiori e le dà risposte soddisfacenti. Dopo un’eruzione vulcanica, i pionieri della vegetazione sono i licheni bianchi. Essi sono formati da una simbiosi mutualistica tra un fungo e un’alga. Il fungo garantisce l’acqua all’alga e questa, mediante la fotosintesi clorofilliana, dà al fungo il glucosio. Poi arrivano i muschi e infine le piante, tra esse l’Angelica dall’aspetto classico della famiglia delle ombrellifere. Ne osserviamo una in bocciolo e una in fiore. Questa pianta erbacea può raggiungere l’altezza di due metri. I piccoli fiori bianchi che occhieggiano tra il verde sono quelli del camedrio alpino e sono il simbolo dell’Islanda. In questo Paese si trova ovunque. Il camedrio è una particolare rosacea: la sua bianca corolla, dal cuore giallo, è formata da ben otto petali. I cuscinetti di fiorellini rosa sono formati dallo xilene, tipica pianta erbacea della tundra, dal portamento prostrato. Forma dei cuscinetti verdi, che d’estate fioriscono illuminando di colore l’ambiente circostante.
Proseguiamo il percorso. La zona umida ci circonda ancora per qualche chilometro. Numerosi sono gli stagni e le pozze d’acqua raccolti negli incavi delle masse laviche. Qui osserviamo i primi animali del territorio: colonie di anatre, che al passaggio rumoroso del nostro mezzo, scodinzolando si affrettano ad allontanarsi dal tracciato. Incrociamo in senso contrario un fuoristrada. La F88 è poco più di un tratturo, può circolare solo un mezzo per volta. L’autista esce un po’ dal tracciato e mette i grossi pneumatici sulla lava tagliente. Fa cenno al fuoristrada di avanzare. Lo scambio è fatto, si può nuovamente procedere. L’andatura rallenta, gli scossoni aumentano, perché la strada è più sconnessa. Ha curve abbastanza strette e inizia a salire. Sono trascorsi solo venti minuti dalla base dei rangers. Ci fermiamo ancora. La guida ci dice che c’è un profondo canyon da osservare e raccomanda di essere prudenti per non cadere nel fiume Jökulsá a fjöllum. Il vasto tavolato sul quale ora è tagliata la strada è stato profondamente inciso dal fiume, che ha raccolto gli innumerevoli rivoli e torrenti, che scendono dai nevai. Ora il fiume scorre limaccioso sul fondo di uno stretto e profondo canyon, le cui pareti sono formate da brune colonne basaltiche.
Ripreso il viaggio e superato il largo guado del fiume, iniziamo a seguire la base dello Heöbreid, alto 1682 metri, dalle ripide pareti e dalla cima piatta coperta da un ghiacciaio. Il paesaggio intorno a noi cambia colore. Ora è tutto giallo pallido. Oddrún spiega che è la pomice a offrire questo quadro. Questa roccia vulcanica si è formata durante la fase esplosiva dell’eruzione vulcanica ed è caratterizzata dalla grande porosità che rende il suo peso specifico inferiore a quello dell’acqua, così che galleggia su di essa. Guardandoci intorno, in lontananza vediamo sventolare una bandiera segna vento, che indica la presenza di un piccolo campo di volo. Ci chiediamo chi mai possa decidere di atterrare in questo desolato deserto.
Superiamo un’altra soglia lavica e il colore del paesaggio muta ancora. Ora siamo sempre più vicini alla caldera dell’Askja. La lava nera e aguzza ci circonda. Il bus sale, ondeggia, sobbalza. L’autista è esperto e abile, noi ci sentiamo sicuri agganciati ai nostri sedili. Superiamo la seconda base dei rangers senza fermarci e con un ultimo strappo il bus si fermaalla base dell’Askja.Scendiamo e iniziamo la salita. Camminiamo per circa quarantacinque minuti nel nevaio reso molle dal disgelo. I passi sono faticosi perché la neve è scivolosa. Raggiunto il margine della caldera, la visione dei due laghi, separati da una cresta lavica, è incantevole.
La caldera dell’Askjasi è formata nell’era glaciale a causa di una forte eruzione, che svuotò la camera magmatica, facendo crollare il sottile tappo di palagonite, la roccia che si forma dal contatto tra la lava incandescente e il ghiaccio. I laghi, invece, hanno un’origine recente. Nel 1875 un’altra violenta eruzione provocò ancora ilcedimento del suolo in due distinti punti della caldera. Si formarono così i due laghi.Il più grande,denominato Öskjuvatn è di colore blu. Con i suoi 217 metri di profondità è il lago più profondod’Islanda. Le sue gelide escure acque contrastano con quelle turchesi del lago più piccolo il Viti. Esso ha una profondità di soli 60 metri e la temperatura della sua acqua si aggira intorno ai 30°C.
Ci distoglie dalla contemplazione di tanta bellezza il ronzio di un areoplanino, che ci sorvola. Disegna un cerchio sopra le nostre teste e poi si allontana, regalandoci ancora del tempo silenzioso.


Durante il viaggio di ritorno il bus sosta presso la basedei rangers più prossima all’Askja. Qui vediamo il bel canyon solcato dallo Jökulsá a fjöllum, che ha ancora un aspetto di torrente. Il canyon è un labirinto. Le sue alte pareti rocciose presentano numerose caverne e anfratti, che sono usati come nidi da molte specie di uccelli.
Ripreso il viaggio, Oddrún ci parla del suo Paese e ci racconta la tragedia avvenuta nel 1906 sull’Öskjuvatn. Due vulcanologi tedeschi, accompagnati da un loro amico pittore, si sono avventurati con una barca male impermeabilizzata sul lago, per prelevare dei campioni d’acqua al fine di studiare l’attività vulcanica. La barca affondò e i due scienziati annegarono. Invano li attese l’amico pittore. I corpi non furono mai recuperati, perché il lago è molto profondo e percorso da correnti dovute alla sua attività vulcanica subacquea. Un anno dopo, la fidanzata di uno dei due vulcanologi pose sul margine del cratere una stele commemorativa.
Alle ore 19.00 il bus ci lascia nel piazzale, dove ci aveva caricato. Salutiamo Oddrún e l’autista. Stanchi e felici ci rechiamo in campeggio.

 

 

 

 

 

DI ACQUA E DI FUOCO (29 giugno)

Anche oggi ci aspetta una bella giornata, sia da un punto di vista meteorologico, sia per il nostro programma turistico.
Con il camper ci rechiamo alla cascata Dettifoss. Posteggiamo e poi a piedi la raggiungiamo. Il fiume Jökulsá a fjöllum, che abbiamo conosciuto ieri, nasce dalla calotta glaciale del Vatnajökull, percorre 206 km e riversa la sua acqua nel Mare di Norvegia, non senza lasciare la sua impronta nei territori che attraversa. Anche in questo suo ultimo terzo di corso segna profondamente il suolo. La cascata Dettifoss è la più imponente d’Europa. Ha una portata media di 200 m3/s. Il suo salto è di 45 metri su un fronte di 100. Esso si è originato a causa di un’eruzione vulcanica, che ha deviato il corso del fiume e ha convogliato la sua acqua in un profondo canyon. Davanti a questa cascata rimaniamo stupiti per la forza che la natura manifesta. Seguiamo il tracciato del sentiero e osserviamo dall’alto la cascata. Anche l’acqua sembra temere il salto, tanto che, giunta quasi sul margine del burrone, con onde di riflusso, tende a risalire la corrente. Però, come nella vita non si può tornare indietro, così anche l’acqua sospinta da un’altra massa in arrivo si getta a capofitto, là dove non si vede il fondo. Poi rimbalza, si mescola, si nebulizza, si adagia e finalmente si acquieta nel letto chiusa tra le alte pareti del canyon. Fotografie e brevi filmati da diverse posizioni ci fanno perdere il senso del tempo. E’ quasi mezzogiorno. Riprendiamo il nostro cammino, seguiamo il sentiero, che tagliato sul margine superiore del canyon ci porta alla cascata Selfoss, che nel corso del fiume precede quella appena vista. Se Dettifoss impressiona per la forza della natura, Selfoss incanta per la sua delicatezza. Il salto, di circa 10 metri, si compie da un largo fronte a semicerchio. Il fiume scorre placido alle sue spalle in un ampio letto, poi accelera. Non tutta l’acqua però precipita dal margine della cascata, una parte continua a scorrere sul tavolato e poi s’infila nelle sue fratture e ricade sul fondo del canyon formando piccole cascate laterali. Giunto in basso il fiume scorre liscio per un breve tratto prima di riprendere la corsa verso la Dettifoss. E’ trascorsa un’altra ora. Torniamo al camper e pranziamo con un paio di panini. Ci rimettiamo in marcia e ci rechiamo in una zona vulcanicamente attiva, quella denominata Krafla.

Qui dal 1724 al 1729 ci fu un’intensa attivitàvulcanica, che trasformò il verdeterritorio in un desolato deserto e formò il monte Krafla. In questo luogo nel 1973, dopo studi difattibilità, iniziò la costruzione di una centrale geotermica per la produzione di energia elettrica, attraverso lo sfruttamento del vapore generato dall’acqua del sottosuolo, che entra in contatto con le rocce caldissime. Nonostante la ripresa dell’attività vulcanica, accompagnata da quella sismica, tra il 1975 e il 1984, il progetto fu completato. Il paesaggio è particolare. Ci ricorda quello di Larderello, in provincia di Pisa. Lunghe tubature metallichefuoriescono dai pendii delle montagne, convergono in tubazioni di maggiore calibro che superano la strada con un imponente arco e giungono in un rosso caseggiato, che ospita le turbine della centrale energetica. Quattro grandi torri di raffreddamento liberano nell’aria il vapore residuo, mentre dell’acqua sulfurea defluisce in un canale di scolo. Più in alto rispetto la centrale sono presenti dei crateri. Il più bello è il cratere Viti, omonimo di quello visto all’Askja. Le pareti di colore rosso mattone del suo invaso contrastano con il turchese del lago, che occupa il suo fondo. Intorno ci sono altri crateri vuoti e piccoli laghetti fumanti. Lasciamo la zona della centrale. Facciamo una breve sosta lungo la strada, dove una doccia e un lavello danno la possibilità di sentire la potenza del calore terrestre. Rimaniamo in zona, ci spostiamo di pochi chilometri e ci rechiamo sul vulcano Leirhnjúkur, che si è formato nel 1727 ed è ancora attivo. La sua ultima eruzione del 1975 ebbe una colata lavica lunga ben 11 km. Ancora oggi le sue numerose fumarole emettono vapori. I minerali, che si depositano sul suolo, colorano di azzurro, giallo, ocra e rosso ciò che altrimenti sarebbe solo nero. La natura con queste variopinte concrezioni si mostra un grande artista dell’astrattismo. E’ un’esperienza indimenticabile. Camminiamo sui carboni ardenti. Il sentiero porta fin dentro il cratere. Procediamo sul tappo vulcanico, che è tutto fessurato. Circondati dai vapori che fuoriescono dalle caverne di differenti grandezze, guardiamo dentro ad esse: sono molto profonde, lo sguardo si ferma contro il buio impenetrabile.
Nel tardo pomeriggio sostiamo per la notte nell’altro campeggio presente sul lago Mývatn.

NORD (30 giugno - 2 luglio)

Il Mare di Norvegia, che lambisce la costa settentrionale dell’Islanda, è lontano solo cento chilometri, ma il viaggio che ci attende non sarà un mero trasferimento.
Trascorriamo la mattinata sul lago Mývatn. Esso, pur essendo di origine vulcanica, non ha la classica forma tondeggiante, perché diverse colate laviche, solidificandosi a contatto con la sua acqua, ne hanno modificato il profilo e hanno ridotto la profondità, che non supera i 5 metri. Grazie alle sue caratteristiche e alla ricchezza di sali minerali, si mantiene viva una rete alimentare, che ha origine dalla cospicua proliferazione delle alghe e poi si dirama nei diversi livelli trofici dei consumatori. Numerosi sono gli uccelli, molti dei quali sono insettivori. Essi trovano in questo habitat milioni di moscerini, fastidiosi per noi, ma innocui. Sulla sponda nord orientale è presente l’Oasi Ornitologica di Sigurgeir e l’annesso museo. La visitiamo. Riparati in una baia numerosissime anatre, di diverse specie, si godono il sole mattutino, oggi particolarmente caldo. Le madri seguite dai loro pulcini insegnano come immergersi. Giuseppe monta il teleobiettivo e inizia a fotografare. Qualche uccello si alza in volo uscendo dai cespugli, che sono lungo la riva e si nasconde meglio tra gli intricati rami degli arbusti. Anche molte anatre sembrano rispondere a un richiamo improvviso, con una breve rincorsa acquatica si alzano in volo.
Il museo porta il nome di chi ha desiderato realizzarlo. Sigurgeir Stefánsson, nativo del lago, già in giovane età iniziò a collezionare uova e in seguito a catturare e imbalsamare gli uccelli. Pensava di allestire un piccolo museo di storia naturale con l’avifauna locale. Purtroppo nel 1999 non ancora quarantenne morì nel lago. Nel 2008 è stato inaugurato col suo nome il museo, realizzato grazie all’impegno dei suoi famigliari, dei suoi amici e con l’aiuto di alcuni mecenati. Dentro le vetrinette sono esposti oltre trecento esemplari di uccelli di circa centoottanta specie diverse. Ogni vetrinetta è dotata di spiegazioni, che indicano il nome islandese e quello scientifico degli esemplari e gli itinerari delle loro migrazioni interne o transcontinentali. Schiacciando un pulsante, una lucina azzurra indica l’uccello che si sta osservando. La visita è facilitata anche dalla scheda che ci hanno consegnato alla reception. In essa sono indicati il nome islandese, scientifico e italiano degli uccelli esposti. Tra gli uccelli che osserviamo, riconosciamo quelli che abbiamo visto a Borgarfjödur. Sotto ogni vetrinetta una lunga fotografia mostra le zone di nidificazione: paludi, prati, scogliere, canneti lacustri, zone interne rupestri.
Un altro padiglione conserva antichi strumenti di pesca, un paio di vecchi sci da fondo, un telefono a manovella e nel centro la prima barca a motore, che ha operato sul lago come servizio di trasporto passeggeri e merci dal 1930 al 1977.
Anche questa mattina il tempo è volato ed è giunta l’ora del pranzo. Un piatto di conchiglie col ragù, che Paola ha cucinato ieri sera, una fresca insalata e una tazzina di mirtilli soddisfano il nostro appetito.
Lasciamo il lago e proseguiamo lungo la R1 in direzione Akureyri. La strada sale per superare crinali e scende in verdi vallate, solcate da fiumi, che scorrono vivaci tra erbosi isolotti. La zona è ubertosa. Gli erbai hanno dato il loro raccolto, che è impacchettato in grosse balle bianche, nere e azzurre. I pendii delle montagne sono in parte rivestiti di vegetazione arbustiva. Essa sta lentamente salendo verso l’alto, dove le creste sono ancora brulle. Numerose sono le soste per fermare nella memoria tanta bellezza.
Un’ulteriore e più lunga fermata la facciamo presso la cascata Godafoss. Seguiamo il sentiero che sta alla sua destra e scendiamo fin sotto il salto, meno imponente di quello delle cascate viste ieri, ma altrettanto spettacolare. Il nome Godafoss significa cascata degli dei e deriva da un avvenimento accaduto nell’anno 1000. Presso questa cascata erano soliti riunirsi i capi clan per prendere importanti decisioni. In quell’anno, al termine dell’assemblea nazionale, si decise di abbandonare il paganesimo per abbracciare il cristianesimo. L’allora “oratore della legge”, noi oggi diremmo presidente dell’assemblea, gettò dalla cascata i simulacri pagani delle divinità norrene.
L’ultimo tratto di strada ci porta con una ripida salita a superare il valico che ci proietta nel fiordo Eyjafjördur, sul cui fondo sorge la città di Akureyri. Sostiamo nel camping comunale, prossimo al centro della città. Akureyri con i suoi 18000 abitanti è la seconda città islandese in ordine di grandezza. A un primo sguardo sembra non meritare una sosta invece, nel suo piccolo, mostra il volto moderno di questo paese. Situata là dove termina il fiordo, lungo 60 km, protetta da scogliere alte poco più di 1000 metri, ha un clima mite, se si considera la latitudine prossima al circolo polare.Qui il verde abbonda.I viali alberati, i giardini pubblici e privati, noi li troviamo fioriti, le case dall’edilizia semplice, lineare e ben curata, danno l’impressione di un luogo, dove si vive bene. Domina la città, la cattedrale, la cui struttura architettonica ci ricorda il Palazzo del Governo di Varsavia. L’interno però merita una visita. Le artistiche vetrate istoriate del presbiterio sono storiche. Provengono dalla cattedrale britannica di Coventry. Nel 1939 gli abitanti di quella città, temendo la distruzione delle vetrate della loro cattedrale, a causa della guerra, le tolsero. Scelta oculata. Infatti, la cattedrale fu rasa al suolo da un bombardamento. Le vetrate finirono da un antiquario di Londra, che le vendette a un islandese. Trasportate in Islanda, l’islandese le rivendette e furono collocate in questa chiesa. Purtroppo non riusciamo a fotografarle. Avendole viste questa mattina, torniamo nel pomeriggio con la fotocamera, ma troviamo la chiesa chiusa.
Interessante è la parte antica della città, che si sviluppò nel XIX secolo. Sono conservati gli edifici di legno di quell’epoca, tra i quali l’antico ospedale del 1835. Nella zona del porto cerchiamo l’atelier di Oddrún, ma lo troviamo chiuso.
Alle ore 18.00 partecipiamo alla santa messa in islandese con una lettura in polacco, la breve predica in islandese, ripetuta in inglese. Come si usa all’estero siamo accolti dal sacerdote, che ci chiede da dove veniamo e dalla suora, che si preoccupa di darci il foglietto della messa scritto in inglese e ci dice che alcuni canti saranno in latino.
La giornata odierna si presenta molto fredda. Spira con una discreta intensità il gelido vento artico, che ci incolla i vestiti addosso. Dedichiamo la mattinata al fiordo di Akureyri. Percorriamo la sua costa destra avvicinandoci al suo sbocco in mare aperto. Questo fiordo piuttosto largo ha, alla base delle scoscese, una discreta estensione pianeggiante. Sui verdi pianori sono presenti fattorie dai bei caseggiati bianchi. Il suolo è sfruttato come pascolo per le pecore e i cavalli, una sua parte è conservata a erbaio e un’altra parte è coltivata. Alcune pecore si proteggono dal vento nascondendosi tra le conche e dentro i burroni, altre brucano ai margini della strada e guardano indifferenti il nostro passaggio, altre al nostro arrivo scappano in una corsa sfrenata incontro al vento.
A Laufás sostiamo. Qui fin dal I secolo sorge una fattoria, la più antica d’Islanda.Nell’anno 1000 accanto alla fattoria fu edificata una chiesa dedicata a san Pietro. Nei secoli successivi tutto andò in rovina. Nel 1865 il reverendo Bjorn Halldorsson ricostruì la chiesa e la fattoria. I pastori evangelici e le loro famiglie abitarono qui fino al 1936. Ora questo luogo è stato dichiarato museo nazionale. Visitiamo la fattoria, la chiesa invece è chiusa. La fattoria è costruita con la torba. E’ una grande casa suddivisa al suo interno in piccoli locali,che hanno l’arredamento dell’epoca. Ospitava circa trenta persone perché, per curare gli erbai e l’allevamento, servivano numerosi contadini.
Ripreso il camper, continuiamo la strada fino a Grenivik, ultimo villaggio di questo lato del fiordo.Dopo il pranzo, consumato inuna panoramica area pic-nic, ritorniamo verso Akureyri e quando incrociamo la R1 seguiamo la direzione Egilsstadir e dopo poco più di una decina di chilometri svoltiamo a sinistra in direzione Húsavík. Húsavík è una cittadina adagiata in una baia aperta sul Mare di Norvegia. Siamo giunti a 66°03’ lat. N, a pochi chilometri dal circolo polare! La cittadina basa la sua economia sulla pesca e da qualche anno sul turismo del whale watching. Nel suo porto osserviamo i pescherecci; le barche, i vascelli e i gommoni dedicati a quest’ultima attività. Siamo sul mare in una cittadina nella quale la pesca e l’industria ittica sono fiorenti. Giuseppe spera di trovare finalmente il pesce a un prezzo abbordabile. Ci rechiamo al discount e... non compriamo il pesce. 50 euro il chilo per pesci di scarsa qualità sono davvero troppi!
Affacciata al mare, la bella chiesa di legno bianco e rosso sembra benedire i naviganti. Al suo interno il quadro di Cristo risorto, tra i cumuli di lava, sovrasta l’altare.

BALENE (3 luglio)

Nel periodo estivo la baia di Húsavík è meta di diversi fenomeni migratori. I principali di tipo biologico sono: quello delle balene e quello dei puffin. C’è poi quello umano: il flusso turistico legato a questi particolari animali.
Anche noi siamo giunti fin qui, quasi in capo al mondo, per osservare le balene, Giuseppe in presa diretta, Paola per suo tramite.
Alle ore 9.30 Giuseppe è sulla barca a motore Silvia della compagnia Gentle Giants. Ha indossato la tuta termica impermeabile fornita dalla compagnia. Trova un prestigioso posto in prima fila sulla prua, ha la fotocamera con montato il teleobiettivo e la schedina di memoria pronta per accogliere cinquecento scatti.
Dopo un quarto d’ora, l’attesa termina. La barca sgancia gli ormeggi e inizia la navigazione verso l’uscita dalla baia. La prima mezz’ora è di mera navigazione. Nel cuore dei turisti alberga una trepidante attesa e la speranza di non capitare in quello 0,7% d’imponderabile, che rende vana la gita.
La guida intrattiene i turisti con alcune semplici spiegazioni. Dice che le balene che si vedranno sono le megattere. Questi cetacei e altre specie provengono dai mari equatoriali e vengono a trascorrere l’estate nei freddi mari settentrionali seguendo lo sviluppo dello zooplancton di cui si nutrono: piccoli crostacei e molluschi, che trovano a loro volta abbondanza di cibo. Infatti, questa zona oceanica si trova sul rift della dorsale medio oceanica. Le continue eruzioni sottomarine, riscaldando l’acqua, creano una condizione favorevole allo sviluppo delle alghe.
Finalmente il primo avvistamento: una linea scura s’intravede appena sotto la superficie dell’acqua oggi colorata di blu intenso e d’argento grazie al cielo limpido e ai riflessi del sole. E’ emozionante, quella linea scura è lunga quanto la barca o forse più! Il capitano si avvicina, la affianca e la segue. La balena emerge con la sua nera pinna dorsale, poi affiora con tutto il suo possente dorso. S’inarca quasi piegandosi in due, si tuffa e la sua coda lentamente s’inabissa, facendo scivolare una sottile parete d’acqua. Di nuovo la megattera si appiattisce appena coperta da un velo d’acqua e dal suo sfiatatoio innalza uno spruzzo alto qualche metro, poi s’inabissa.
Altre barche e gommoni accorrono. La caccia fotografica è appena iniziata e questi mastodontici animali sembrano divertirsi a fare le gimcane tra i natanti, che ondeggiano.La gioia, la tensione emotiva, l’attenzione verso ciò che accadrà di nuovo, non sapendo dove, sono palpabili sul viso di tutti. Altre balene sfilano sott’acqua mostrando il loro profilo, poi una, con la parte inferiore della pinna caudale bianca, salta fuori, E’ un attimo. Tutti vedono, pochi riescono a fermare con uno scatto, anche per il beccheggio della barca. La pesantezza di questo pachiderma del mare si scioglie nell’aria e mentre si rituffa tra innumerevoli spruzzi, accompagna il suo inabissamento con un colpo di coda, che sembra il battito d’ali di una farfalla.L’entusiasmo sale e si esprime con sorrisi, esclamazioni e commenti, ma non c’è tempo da perdere. La barca, ben governata, vira alla ricerca di nuovi avvistamenti. In questo tempo di calma apparente diventano protagonisti della scena i diffusissimi gabbiani e i puffin. Posati sull’acqua, muovono agili le loro zampette palmate e si librano in volo appena avvertono la presenza dei natanti o quella dei cetacei, innocui, ma tanto ingombranti? Infatti, liberata la superficie acquosa, spunta il muso lungo e bitorzoluto di un’altra balena. Con i suoi grandi e languidi occhi scruta ciò che le sta intorno, quindi s’inarca. La sua nera pelle spessa, glabra e rugosa, illuminata dal sole, sembra cosparsa di pagliuzze d’oro. Il rituale si ripete: s’inarca, s’inabissa e con la coda trascina nuovamente in acqua il mare, che voleva andare in cielo.
Dopo un paio d’ore la barca rivolge la prua verso il porto. Giunti a destinazione la compagnia offre ai partecipanti la cioccolata calda e un dolcetto tipico del luogo. Giuseppe torna al camper radioso e, mentre pranziamo, mi racconta ciò che ha visto e le sue emozioni, poi scarica subito sul portatile le fotografie e me le mostra facendomi vivere la sua mattinata speciale e indimenticabile.
Nel pomeriggio ci rechiamo al Whale Museum. Aperto nel 1977, recuperiamo esaustive informazioni sulle balene, sull’ecologia marina e sulle interazioni storiche tra l’uomo e le balene. La prima sala fornisce le conoscenze scientifiche necessarie per rendere istruttiva la visita. Da un punto di vista evolutivo i cetacei hanno un antenato in comune con i cammelli, i suini, le giraffe. Il loro adattamento alla vita acquatica ha comportato una modificazione della loro anatomia e fisiologia. Il corpo ha assunto una struttura pisciforme e gli arti sono diventati una sorta di pinne. Secondo il tipo di alimentazione i cetacei si sono distinti in due sottordini: gli odontoceti, dotati di denti tutti uguali, come il delfino, il capodoglio e l’orca si nutrono di pesci e i misticeti, dalla cui cavità boccale pende una produzione cornea epiteliale detta fanoni si nutrono di zooplancton. I piccoli crostacei e i molluschi rimangono impigliati nei fanoni. Un filmato introduce alla conoscenza delle megattere. Questa balena è famosa per il suo canto. Emette una sequenza di gemiti e mugolii, che viaggiano per lunghe distanze. Essendo degli animali gregari, comunicano in questo modo con i propri simili, creando una struttura sociale a maglie larghe, di cui si conosce ancora poco.
Molto stretto è invece il legame che unisce la madre al suo cucciolo. Il piccolo le nuota accanto e spesso madre e figlio si toccano con le pinne: un gesto di tenerezza. Nel filmato si vede anche il momento dell’allattamento, durante il quale il neonato pende letteralmente dal ventre materno.
In un’altra sala è descritto il rapporto tra l’uomo e le balene. In Islanda la caccia ai cetacei è iniziata nel XVIII secolo ed è continuata fino al 1935, anno in cui è stata definitivamente proibita. Un filmato in bianco e nero mostra le fasi della macellazione. Se fa impressione la crudezza dello squartamento di un animale morto, immaginiamo quanto più straziante e orribile sia la violenza perpetrata per farlo morire.
Al piano superiore sono esposti diversi scheletri di balena e quello di un narvalo. Tutti questi animali sono stati trovati spiaggiati sulle coste di quest’isola.
Un altro filmato fornisce altre informazioni.Troviamo interessante quella che riguarda il fenomeno migratorio, che si ripete ogni anno. I biologi marini stanno cercando di capire il senso di orientamento posseduto dalle balene. Esse seguono sempre la stessa rotta: partono e giungono sempre negli stessi luoghi. Diverse sono le teorie formulate. C’è chi sostiene che si orientino con il sole, altri pensano che abbiano una sensibilità legata al campo magnetico terrestre, altri ancora ritengono che mediante un sonar biologico riconoscano la struttura dei fondali. Infine c’è chi sostiene che si orientino grazie alla percezione delle correnti e della temperatura dell’acqua. Probabilmente il loro senso di orientamento si basa sulla sinergia di queste differenti sensibilità.
Questa indimenticabile giornata la terminiamo con una cena al porto: fish and chips per Giuseppe, solo chips per Paola.

66°LATITUDINE NORD (4 - 8 luglio)

Nella tarda serata di ieri è piovuto intensamente, poi nella notte la pioggia è cessata. Questa mattina il cielo è completamente coperto. Un denso strato grigio ferro pesa sulle nostre teste. In lontananza si vede un sottile spiraglio di azzurro, che ci fa ben sperare.
Lasciamo Húsavík e ci rispostiamo un po’ verso est seguendo il profilo della baia. Dall’alto osserviamo le acque delle balene e l’isolotto roccioso, casa dei puffin. Superato il promontorio, una deliziosa area pic-nic, tanto agognata quanto rara, ci dà l’opportunità di concederci la pausa caffè e ci offre una bella visuale sulla scogliera, dove nei suoi numerosi anfratti sono in cova i gabbiani. Le femmine immobili tengono al caldo le uova. I maschi fanno frenetici voli in difesa del proprio nido. A volte scendono fino al mare e poi risalgono, raggiungono la compagna, che li richiama chiocciando e le riversano nel becco il nutrimento di cui ha bisogno. Più in basso, dove la scogliera è in parte ricoperta d’erba, hanno nidificato i puffin. Li vediamo neri e piccoli spiccare il volo verso il mare e poi adagiarsi sulla sua superficie, tuffarsi alla ricerca del cibo, riemergere e spiccare nuovamente il volo verso il nido per dare il cambio alla compagna nella cova.
Ripreso il tragitto, la strada si addentra nel territorio ora più abitato. Si spande nell’aria l’odore dell’erba tagliata, che i laboriosi fattori rivoltano con le macchine agricole e la accumulano per poi imballarla. Le linde fattorie dai tetti colorati spiccano tra il verde. Superato il fiume, che sfocia in questo fiordo, la strada sembra essere il vialetto di un immenso giardino fiorito. Dalla base dei vulcani fino al mare c’è un’unica estensione di lupini. L’azzurro violaceo di questa invadente pianta erbacea contrasta con il verde intenso delle sue foglie e con il rosso cupo delle rocce laviche. Dove termina la strada asfaltata a Kópasker posteggiamo. Kópaskerè un piccolo borgo affacciato al mare, lì dove la costa si abbassa formando un nero arenile. All’inizio del paese sui prati di una fattoria cisono diversi spaventapasseri vestiti con i costumi tradizionali e in pose varie. Davvero curioso, la sosta è d’obbligo. Pranziamo sulla banchina del porticciolo: ristorante Paola, cucina casalinga. Il tempo non ci delude, c’è il sole. Passeggiamo per il villaggio. Abbiamo superato di poco i 66° lat. N e siamo solo a 30 km dal Circolo Polare Artico.Tocchiamo l’acqua del mare, baciata dal sole, è tiepida. Dopo pranzoci incamminiamo verso il faro, ma non lo raggiungiamo perché poco più avanti la strada è chiusa. Siamo però entrati nel territorio delle sterne artiche, che nel prato hanno i loro nidi.Con grida minacciose ci sorvolano e ci spaventano con ardite picchiate. Torniamo sui nostri passi. Ci mettiamo nuovamente in marcia e sostiamo a Ásbyrgi, dove troviamo uno dei centri visitatoridel Parco Nazionale Vatnajökull e il campeggio.
La chiara notte artica non lascia molto tempo alcompleto silenzio. Il sole non vuol mai tramontare e quando la sua palla infuocata scende sotto l’orizzonte, con il suoriverbero impedisce ai suoi fratelli ben più grandi, ma anche molto, molto lontani di accendersi sulla volta celeste.
Anche la vita si adegua a questa bizzarra luce. Il sonno stenta a sopraggiungere e quando finalmente si cade nelle braccia di Morfeo, dopo poche ore diversi uccelli salutano con il loro canto l’alba del nuovogiorno. Noi però rispettiamo il nostro ritmo circadiano. Questa mattina ci alziamo riposati e pronti per affrontare una lunga gita dal canyon Ásbyrgí a quello dello Jökulsá a fjöllum. La giornata si presenta luminosa e calda. Se sul camper il termometro segna 14°C, significa che fuori alle ore 8.30 la temperatura è già di 12°C. Indossiamo il pile e per prudenza mettiamo nello zaino oltre alla giacca impermeabile un’altra felpa.

 

Il canyon dell’Ásbyrgí ha la forma di ferro di cavallo. Un’antica leggenda dice che si è formato grazie all’impronta del cavallo di Odino, divinità norrenica. I geologi ritengono che si sia originato a causa di violente eruzioni vulcaniche. Qualunque sia la sua origine è una formazione davvero interessante. Dal campeggio percorriamo un breve sentiero fino alla base della parete rocciosa. I cinquanta metri di roccia verticale li superiamo con un’arrampicata assistita dalla corda fissa e da una scaletta metallica. Raggiungiamo la sommità della scarpata e iniziamo a seguire il sentiero n. 8. Siamo soli, immersi nella natura incontaminata. Ci accompagnano nel cammino il ronzio degli insetti, che vivono frenetici la loro breve vita e il canto degli uccelli, che sbucano dall’intricato groviglio dei cespugli del salice lanoso per nascondersi tra i rami delle betulle nane. I salici hanno le foglie verdi argentate, sono al termine del loro ciclo vegetativo annuale e liberano nel vento la loro lanuggine colma di semi.
C’è un uccellino che ci incuriosisce. Ha un canto particolare, un frullio un po’ gutturale, tipo frrgruup. Lo soprannominiamo uccellino invisibile, perché è piccolo, nerastro e velocissimo. Sfreccia davanti ai nostri occhi ed è già nascosto.
Il sentiero che percorriamo è un ampio anello, che ci fa camminare in zone paesaggisticamente differenti. Ormai il sole è alto e, parafrasando una nota canzone: “sotto questo sole è bello camminare, ma c’è da sudare...”. Sosta, togliamo il pile, forse oggi ci abbronzeremo un po’.
Il sentiero segue ilmargine del precipizio e porta nell’incavo del ferro di cavallo, alla cui base c’è un piccolo lago alimentato da una sorgente nascosta tra le rocce dello strapiombo. Qui con un’altra breve arrampicata ci stacchiamo dal margine e iniziamo la traversata del vasto tavolato lavico, che separa i due canyons. Siamo nella tundra. Licheni bianchi, muschi, equiseti e rare piante erbacee ricoprono i grandi massi basaltici,dalla forma a scudo.Poi il paesaggio cambia bruscamente. Il sentiero diventa un nero tappeto di terra lavica e percorre il greto asciutto di un torrente. Intorno, numerose formazioni rocciose, alte e contorte si ergono dal nudo suolo. Il luogo è davvero desolato, eppure in mezzo a tanta aridità spicca gentile il fiore giallo del tarassaco: un inno alla vita. Questo fiore, molto comune anche in Italia, è quello che quando fruttifica forma ciò che comunemente è chiamato soffione: una palla di acheni muniti di sottili setole bianche. Il vento porterà questi semi verso nuovi territori di crescita.
Con uno scaletto superiamo la rete metallica che limita il pascolo delle pecore. Il deserto lascia spazio ad arbusti striscianti, che nascondono la vita nascente. Si sentono diversi pigolii. Improvvisamente il frullio d’ali di una pernice artica ci fa arrestare. L’uccello con il suo piumaggio estivo svolazza davanti a noi e con il suo verso gutturale difende la sua covata. Giuseppe riesce a scattare alcune fotografie prima che essa ritorni nel basso fogliame.
La traversata dell’altopiano è quasi completata. Iniziamo a udire il fragore dello Jökulsá a fjöllum ed eccolo scorrere in fondo al suo profondo canyon. Ai nostri piedi forma un nastro argentato; sostiamo per il pranzo: della frutta e tre biscotti ci rigenerano. Riprendiamo il cammino e ci addentriamo in una zona maggiormente ricca di alberi, dove le betulle nane ramificano appena fuori dal terreno. I rami molto contorti elevano verso il cielo dei sottili rametti, ai quali sono aggrappate le tremule foglie, che faticano ad allargare la loro lamina. Il lussureggiante sottobosco è tripudio di colori. I fiori azzurri del geranio selvatico, quelli bianchi del cakile artico, quelli gialli del ranuncolo, quelli viola del celoglosso della famiglia delle orchidee, fanno di questa zona un giardino. Poi, via via che ci allontaniamo dal margine del canyon, la vegetazione torna a essere prima arbustiva e poi erbacea. Giunti alla scarpata da dove eravamo saliti, come i re magi, per un’altra strada facciamo ritorno. Proseguiamo sul tavolato, che lentamente scende fino al piano, allungando la gita di un paio di chilometri.
Il nostro giro tra i fiordi del nord continua. Torniamo ad Akureyri e percorriamo la costa occidentale del suo fiordo, che si presenta fino a Dalvík con un bassopiano più ampio e maggiormente sfruttatoda unpunto di vista agricolo rispetto a quello della costa che gli sta di fronte.Percorsi pochi chilometri un cartello indica che nel villaggio di Mödruveblirc’è una chiesa artistica.Breve deviazione e sosta. La piccola chiesa di legno bianco col tetto rosso ha al suo interno il soffitto color del cielo trapuntato di stelle. Ci stupisce trovare anche nelle chiese costruite dopo la Riforma, immagini di Cristo. Recitiamo una preghiera a Dio, Padre di ogni uomo, e lasciamo scritto il nostro ricordo sul quaderno delle visite.
Superata la cittadina di Dalvík, la strada s’inerpica sul promontorio. Il dirupo sotto di noi è alto e aspro. La guida richiede a Giuseppe una particolare attenzione, perché non ci sono protezioni. Di fronte a noi c’è l’apertura del fiordo sul mare. La strada per superare l’ultimo sperone s’imbuca in una stretta e buia galleria. Ha un’unica corsia. All’ingresso un cartello stradale indica che la nostra direzione deve dare la precedenza ai veicoli che provengono nel senso opposto. Ogni 200 metri c’è una piazzuola di scambio.Nei 7 km del tunnel frequenti sono le soste che facciamo. All’uscita siamo quasi sulla punta del promontorio. Sostiamonel paese di Olafsfjórdur. Aperta la porta del camper, ci colpisce l’odore di pesce che impregna l’aria. Questa zona, anni fa, ha avuto un notevole sviluppo nel settore ittico, grazie ai banchi di aringhe. Poi in seguito a un cambiamento termico del mare, le aringhe si sono spostate verso est e il territorio ne ha risentito. Ormeggiato nel porto, c’è un grosso peschereccio che, data la stazza, sicuramente cerca il pesce lontano dalla costa. Affacciata al molo, un’industria conserviera sta lavorando. Si sentono i macchinari in funzione. Ci avviciniamo e sbirciamo dentro i capannoni aperti. Fuori ci sono enormi casse di plastica che contengono ciò che resta del pesce dopo la sua preparazione in filetti.
Ci rimettiamo in marcia. A Siglufjódur sostiamo per il pranzo. Poi visitiamo la cittadina. Le sue belle case di legno, colorate con colori vivaci, la rendono davvero attraente.
Siamo al confine settentrionale del mondo e anche qui si conosce l’eccellenzaitaliana, peccato però che il caffè, come lo intendiamo noi, non lo sappiano fare. La nostra moka è ancora la soluzione migliore.
Proseguiamo. Un radiofaro segnala l’ingresso nel fiordo successivo, lo Skagafjördur. La strada procede con ripide salite e discese e ha alcuni tratti sterrati. Ufficialmente ci sono dei lavori in corso, però non è presente nessun cantiere. Il paesaggio è davvero sorprendente. Una vasta laguna dall’acqua traslucida ospita diverse colonie di uccelli. Dalle acque marine emergono scuri isolotti con pareti rocciose molto diritte. La campagna circostante ha la presenza di pochissime fattorie. Ci chiediamo come si possa vivere così isolati, soprattutto pensiamo ai bambini che dall’età scolare vivono nei college, lontani dalle relazioni parentali.
E’ circa metà pomeriggio. Una pausa caffè è salutare.A Holsós ci fermiamo. Sosta più che azzeccata. Infatti, la sua scogliera è costituita da colonne di basalto. Percorriamo un breve sentiero e scendiamo fino al mare per vederle da vicino. Le possenti colonne prismatiche danno un senso di stabilità, invece nascondono un segreto: poggiano su un substrato tormentato e tumultuoso.
Dopo pochi chilometri raggiungiamo il fondo del fiordo e troviamo posto nel camping Saudarkrokur, che ha davanti a sé la statua di un cavallo. Troviamo strano che in un Paese, dove si allevano pecore, cavalli e oche, abbia in una sua cittadina un monumento dedicato al cavallo. Curiosi ci interessiamo. Il cavallo islandese è una razza autoctona. I suoi antenati furono portati in Islanda dai vichinghi alla fine del I secolo. Secondo la civiltà norrenica, cioè dei vichinghi, il cavallo è un animale sacro. Anche se la sua statura non è particolarmente elevata e la sua corporatura è piuttosto muscolosa, il cavallo islandese ha un portamento elegante, dovuto anche alla sua folta criniera e alla lunga coda, che sfiora terra. I suoi mantelli sono di diversi colori e pezzature. Sovente la criniera e la coda hanno una tinta che contrasta con quella del mantello. L’indole del cavallo islandese è docile, per questo era utilizzato nei lavori agricoli e come mezzo di trasporto. Oggi la modernizzazione dei settori ha tolto loro questo ruolo. L’allevamento odierno è di utilizzo come destriero e per la macellazione, la cui carne è esportata prevalentemente in Giappone.
Notte di pioggia, mattino soleggiato. Camminiamo per le strade di Saudarkrokur. La cittadina non ha nulla di particolare, tuttavia dà un quadro dell’attuale Islanda urbana. Vi abita gente operosa, che guarda all’essenzialità. Partiamo in direzione Akureyri, dove questa sera parteciperemo alla messa prefestiva. Percorsi una decina di chilometri sostiamo a Glaumbaer, dove c’è un’antica fattoria, costruita con la torba. Avendo già visitato quella di Laufás, la osserviamo solo esternamente. All’apparenza sembrano più case costruite una accanto all’altra. Invece, la costruzione all’interno è un’unica abitazione con camere collegate tra loro da un lungo corridoio trasversale. Questa particolare architettura è condizionata dal tetto erboso. Esso deve avere una precisa inclinazione per garantire all’interno un’adeguata umidità, senza però gocciolamenti.
Proseguiamo seguendo in contro corrente il fiume che sfocia nello Skagatfjördur. Esso scorre in un ampio letto che taglia in due la vallata agricola. Raggiunta la R1, prendiamo la direzione Akureyri. La valle si restringe. Il fiume che scorre a tratti dentro la forra che ha scavato, ha le sembianze di un torrente. Dalle montagne che lo stringono, scendono altri torrenti. Le incisioni ora illuminate dal sole, ora oscurate dalle nubi, esaltano l’effetto cromatico del paesaggio. Superato lo spartiacque, il versante sinistro di questa nuova e selvaggia conca valliva ci riserva un quadro interessante. Una cresta dentata si staglia contro il cielo e si differenzia da tutte le altre alture dal profilo tondeggiante. Il camping comunale di Akureyri è di nuovo il nostro punto di sosta.

FOCHE (9 luglio)

“E’ bella la natura islandese con i suoi pendii, le sue vallate, le sue cascate e i suoi monti.”(H. Laxness)
Noi oggi con un lungo trasferimento stiamo ammirando tanta magnificenza. Lasciamo definitivamente Akureyri e seguiamo la R1 muovendoci verso ovest. Riprendiamo in senso contrario l’ultimo tratto di strada percorso ieri, poi dopo aver tagliato la base della penisola, che separa il fiordo Skagatfjördur dallo Húnaflói, affianchiamo il fiume Blanda, che scorre in una valle stretta e disabitata fino al suo sbocco nel mare. A Blönduós sostiamo per il pranzo e nell’area di servizio riusciamo ad acquistare la nuova bombola del gas.
Ripreso il viaggio, attraversiamo un’ampia piana. E’ il tempo della fienagione. Nei campi dove non si è ancora raccolta l’erba, ferve un alacre lavoro. C’è chi con la falciatrice sta iniziando il raccolto, altrove c’è chi con la macchina rivolta l’erba e rastrella, su altri erbai c’è chi con la macchina imballatrice raccoglie e sigilla i covoni, infine c’è chi accumula i covoni sigillati in alte cataste.
Il vento spira impetuoso e ha sgomberato il cielo dalle nubi del weekend. Il traffico è piuttosto sostenuto, probabilmente a causa del rientro dal fine settimana dei vacanzieri locali.
Con una breve deviazione raggiungiamo il paese di Hvammstangi. Qui c’è The Icelandic seal Center. Vogliamo documentarci sulle foche e vederle dal vivo. La sosta è in parte deludente. Per vedere le foche dal vivo occorre raggiungere la punta del fiordo, percorrendo circa 35 km di strada sterrata. Al museo ci sconsigliano di percorrerla con il camper, perché è piuttosto sconnessa. Il museo è piccolo, ma nel complesso interessante. I cartelloni, scritti anche in inglese e in tedesco descrivono le caratteristiche delle specie delle foche che si trovano lungo le coste islandesi. Un filmato mostra la vita di questi pinnipedi dal muso simpatico, ma non certo amichevoli. Una delle caratteristiche, che accomuna le diverse specie, riguarda la visione oculare. Essa è frontale, essendo le foche dei predatori, la loro vista è più acuta in acqua e al buio. Le vibrisse, che le fanno sembrare sapienti, sono ben innervate e servono per la ricerca del cibo. Interessante è scoprire come fa questo mammifero, che ovviamente respira l’ossigeno atmosferico, a rimanere a lungo sott’acqua. Le foche, che hanno un numero di battiti cardiaci compreso tra i 75 e i 120 al minuto, quando sono sulla terra, li riducono fino in media a 5 battiti al minuto, quando si immergono. In questo modo risparmiano energia. Inoltre avendo una grande quantità di globuli rossi, riescono a immagazzinare e trasportare molto ossigeno. Rispetto ad altri carnivori le foche forniscono ai cuccioli una breve cura parentale, per la necessità di sopravvivenza delle madri. Infatti, mentre l’accoppiamento avviene in acqua, il parto si compie all’asciutto. Il cucciolo è allattato per circa un mese. In questo periodo mentre egli cresce di due chili ogni giorno, perché il latte che succhia è per metà ricco di grassi, la mamma, che non si nutre, perde circa tre chili ogni giorno.
Usciamo dal museo. Spira un vento teso e freddo. Il sole non riesce ad alzare la temperatura sopra i 15° C. Dall’abbigliamento si vede subito chi è islandese. Gli indigeni indossano solo una t-short di cotone, gli stranieri sono coperti con una giacca, un pile o un maglione.
Lasciamo Hvammstangi con la speranza di vedere le foche in qualche altro fiordo. Superato lo Húnaflói la strada sale e raggiunge un altopiano ampio e selvaggio.Il paesaggio è davvero incantevole per gli amanti della montagna. Alla nostra destra la catena dei monti Snjofjoll, che seppure non raggiunga i 900 metri di altitudine, ha parecchi nevai, dai quali scendono con piccoli salti tanti torrenti, alla nostra sinistra si staglia in lontananza una serie di catene montuose completamente innevate. All’incrocio con la strada n. 60 svoltiamo a destra. Il tracciato s’inerpica. Siamo dominati dalla nuda cuspide del monte Sandur. Raggiunto il valico, scendiamo fino al mare. Sostiamo nel campeggio di Búdardalur, dotato di tutti i servizi necessari ai camperisti.

 

IL FAR WEST DELL’EUROPA (10 – 12 luglio)

Búdardalur è il paese da cui parte una delle due strade che conducono alla scoperta dei fiordi occidentali.Anche oggi la giornata si presenta eccezionale. Il cielo è completamente sereno e il sole si sta impegnando a riscaldare l’aria che è piuttosto fredda.La strada n. 60 che abbiamo iniziato a percorrere ci conduce verso nord attraverso una stretta valle selvaggia e dolce.Il verde brillante dei suoi pendii dona un senso di pace.In località Bakki c’è un’insegna che segnala la presenza di un piccolo emporio artigianale. Sostiamo.Siamo in alto rispetto al fiordo e la visione panoramica merita la nostra ammirazione. Sono le ore 10.30. Il negozietto è ancora chiuso. Aprirà tra mezz’ora. La signora da dentro ci vede, apre e ci invita a entrare. Nel negozio sono esposti dei prodotti di vetro lavorato, dei manufatti di lana e piccoli souvenir. Acquistiamo un berretto di lana per Giuseppe, lavorato a maglia da Ólafia Sigurpálsdóttir e un ciondolo di pelle e lana di pecora da appendere alla nostra parete dei ricordi.Il negozio è anche un piccolo bar. La signora cucina torte. Acquistiamo un piccolo trancio: sembra una sbrisolona, ma è farcita con della marmellata. Fanno atmosfera nell’angolo bar dei vecchi utensili: un tritacarne, una macchina per cucire, due fusi, un telefono a manovella e... un pitale di metallo smaltato.
Ripreso il camper, abbandoniamo la n. 60, perché prosegue con tratti sterrati e ci immettiamo nella n. 61. Essa ci fa attraversare la penisola portandoci sull’altra sponda. Transitiamo dal paese di Homalvik senza sostare e con un’altra lunga traversata ci spostiamo nuovamente verso occidente. La strada sale e raggiunge un altopiano costellato di nevai e laghetti: una meraviglia e siamo solo a 400 metri di altitudine! In una piazzuola, immersi in un totale silenzio pranziamo.
Il viaggio continua, noi scendiamo fino al mare. Abbiamo raggiunto la costa dell’Ísafjardardjúp, un profondo fiordo a sua volta articolato in tanti piccoli fiordi. La penisola che sta di fronte e che lo chiude è una vasta terra, quasi completamente disabitata, percorsa solo in parte lungo le sue coste da due vie sterrate. Essa è molto montuosa e in gran parte coperta dal ghiacciaio Dragajokul. Il mare riflette l’azzurro del cielo e si colora di blu. La strada percorre i singoli fiordi fino sul loro fondo, dove con un piccolo ponte supera il fiume, che lì sfocia. I fiumi con maggiore portata penetrano tumultuosi nel fiordo proseguendo la loro corsa per qualche decina di metri prima di miscelare la loro acqua dolce con quella salata.
Il Mjóifjördur è sbarrato da una diga e la strada vi scorre sopra: Il braccio di mare, diventato lago salmastro, ospita una folta colonia di cigni. Questi volatili, dal portamento elegante, vivono una fedele vita di coppia. Alcuni hanno già la loro nidiata, costituita da due o tre pulcini, che si differenziano dall’adulto, oltre che per la taglia, per il piumaggio grigiastro.
Il panorama è davvero polare, come l’aria. Sono le prime ore del pomeriggio e il termometro segna solo 7°C! Oltre ai cigni osserviamo in cova, sulle alghe secche, numerosi edredoni, le anatre marine. Nel cielo intrecciano voli i soliti gabbiani, le sterne artiche e altri uccelli di minore taglia, tra i quali quello che noi chiamiamo uccello invisibile. Le soste sono numerose, perché il paesaggio offre scorci imperdibili. Sulle coste dello Hestfjördur la delusione di ieri riguardo le foche, viene riscattata. Qui la sosta richiede del tempo.Posteggiamo bene il camper e ci avventuriamo verso il mare saltando tra uno scoglio e l’altro e dove non è possibile camminando sull’umido e scivoloso tappeto di alghe e datteri di mare, emersi grazie alla bassa marea. Giuseppe con la fotocamera con montato il teleobiettivo si spinge molto avanti. Le foche sono raggruppate secondo la loro specie. Lo guardano avanzare. Il clic della macchina fotografica un po’ le allarma. Una più timorosa si tuffa. Altre sembrano mettersi in posa, sono invece molto vigili e non lo perdono d’occhio. Distinguiamo due specie: la foca grigia e quella della Groenlandia, i cui cuccioli hanno la pelliccia bianca.
Infine giungiamo a Sudavik, un piccolo villaggio sullo Alftafjördur, dove c’è il centro di ricerca per la volpe artica. Sostiamo nel suo campeggio che sta di fronte al porticciolo con ormeggiati alcuni pescherecci. La cena termina con la torta casalinga acquistata a Bakki, una squisita bontà.
Il centro di ricerca per la volpe artica è unico nel suo genere. Offre approfondite conoscenze su questo canide e ha in custodia due cuccioli rimasti orfani. La visita è interessante. La volpe artica, detta comunemente volpe polare, è l’unico animale autoctono dell’Islanda. Sono stati trovati dei suoi resti risalenti a 3500 anni fa. Attualmente in questo Paese vivono circa 7000 esemplari. La popolazione è tenuta costante con la caccia controllata. La volpe artica è un animale di piccola taglia. Il suo corpo è lungo circa sessanta centimetri e la sua folta coda è lunga quanto il corpo. La volpe artica pesa circa quattro chili e mezzo. Si distingue in tre razze, secondo il colore del pelo: bianca, blu e beige. Il 90% delle volpi artiche mondiali ha il pelo bianco. Quelle che vivono nei fiordi occidentali islandesi per l’80% hanno il pelo blu. Ciò è dovuto a un loro isolamento genetico. Questa razza si è meglio adattata alla vita costiera, dove riesce a catturare gli animali di cui si nutre: uccelli marini, uova, pesci rapinati agli uccelli, piccoli roditori. Durante il periodo estivo si nutre anche di bacche e insetti. La volpe artica vive in media undici anni. Non ha una vita sociale. Caccia da sola. Come tutti i canidi, marchia il territorio di caccia e lo difende dalle intrusioni. E’ monogama e partorisce cinque o sei cuccioli, che alla nascita pesano solo 80 grammi e diventano adulti in circa quattro mesi. Il parto avviene nella tana, che è scavata nei terreni erbosi presenti tra le rocce. La tana ha diverse uscite, nascoste da voluminose piante erbacee, come l’angelica.
La volpe artica cambia il pelo a seconda le stagioni. Quella blu in estate ha una pelliccia rada del colore del cioccolato al latte, in inverno una folta pelliccia dai toni azzurrognoli. Con circa 25000 peli per cm2 di cute riesce a vivere normalmente fino a 35°C sotto zero e si è verificata la sua capacità di sopravvivenza fino a meno 70°C. La visita del centro la terminiamo affacciandoci alla rete che delimita il territorio dei due cuccioli. Stanno dormendo. Uno è appallottolato proprio davanti a noi, l’altro è seminascosto nell’erba. Il nostro scalpiccio li desta. Quello più lontano s’innervosisce, corre e attacca il compagno, che scappa e a sua volta contrattacca.Si prendono e si azzuffano. Sono piccoli, ma le loro fauci spalancate mostrano già gli acuminati canini e gli affilati e taglienti molari. Foto, foto e ancora foto. Poi ci allontaniamo molto soddisfatti. Torniamo in campeggio, sorseggiamo il caffè di metà mattina e ci mettiamo in marcia. La prima meta è Pingeyri. Per raggiungere il paese seguiamo la costa dell’Isafjardardjúpfino alla città di Isafjördur. Qui ci imbuchiamo in una buia galleria costruita nel 1996, che dopo quattro chilometri si biforca conducendo in due distinti fiordi. Dal bivio la strada diventa un’unica corsia con le piazzuole di scambio. Usciti dalla galleria in una panoramica area pic-nic sostiamo per il pranzo. Abbiamo di fronte il fondo del fiordo circondato da un circo glaciale. Poco prima di giungere a Pingeyri, Giuseppe rallenta, poi frena bruscamente. In mezzo alla strada c’è una beccaccia di mare, uccello dal piumaggio nero sul dorso e bianco sul petto, il becco lungo, sottile e robusto di colore arancione come le zampe. L’uccello non si alza in volo, anzi indugia. Sta proteggendo i suoi tre pulcini, che lentamente zampettano in mezzo alla strada. Con un acuto pigolio sembra sgridarli e li guida fuori dalla carreggiata. Che esempio di cura materna!
Il paese di Pingeyri, un tempo fiorente, perché base per le navi baleniere, è in declino. I suoi capannoni dismessi sono cadenti. Camminiamo lungo la sua via principale. Anche le case sono poco curate. In fondo alla via principale un rumore martellante attira la nostra attenzione.

Ci affacciamo alla porta aperta di un caseggiato. E’ un’officina meccanica. Un ragazzo adolescentesta battendo sull’incudine del ferro arroventato. L’insegna porta il nome della società: Godmundur J. Sigurdsson 1913. La guida scrive che è la più antica officina meccanica dell’Islanda. Torniamo indietro e a metà galleria deviamo verso Sodureyri. Raggiunto il paese, posteggiamo e poi proseguiamo a piedi fino sulla punta del fiordo. Siamo sull’estremo lembo dell’Europa. Lontana circa 300 km c’è la costa della Groenlandia.

Qui in punta al fiordo sorge l’industria conserviera Klofningur ehf. C’è esposto un cartellone che spiega l’attività che svolge. Il pesce è lavorato, e ogni sua parte ha un proprio e preciso utilizzo. Le teste essiccate sono esportate in Nigeria. Ci chiediamo per quale utilizzo, ma questo non è specificato. La carne dopo essere stata macinata e salata è venduta nei mercati europei e americani. Ecco da dove viene il contenuto delle crocchette di pesce! Dalla pelle ricca di omega 3 si ricava una sostanza pastosa, impiegata nell’industria farmaceutica per la produzione di pomate cicatrizzanti.
Intanto stanno rientrando nel fiordo dei piccoli pescherecci. Torniamo indietro velocemente verso il porto per osservare l’attività che si svolgerà. Arriviamo in tempo per vedere i cassoni di plastica colmi di pesce, l’halibut: un grosso pesce tipico dei mari del nord. I cassoni sono pesati e poi caricati su un camion frigorifero. Intanto un vichingo sta trasferendo il ghiaccio da un cassone svuotato del pesce e un altro posto su un peschereccio pronto per andare al largo. Con una precisione millimetrica prende delle palate di ghiaccio e le butta di sotto senza perdere neppure un cubetto. Nel cielo attirati dal penetrante odore del pesce, i gabbiani testa nera, quelli imperatore e le sterne intrecciano voli emettendo strida acute per scacciare i contendenti. Tutti questi uccelli rimangono però a becco asciutto, perché il pesce nei cassoni è ben protetto.
Ancora una volta torniamo al camper e invertiamo il senso di marcia. Raggiungiamo la cittadina di Isafjördur, dove sostiamo nel suo campeggio, caro e senza camper service. Per il ricambio d’acqua e la pulizia del WC chimico occorre uscire dal campeggio e spostarsi di due chilometri.

 

Sono tristi i fiordi occidentali. Loro che ci hanno accolto con tanto sole e colori sfavillanti, piangono la nostra partenza. Abbiamo davanti a noi i dentro e fuori di tutti i fiordi già percorsi. Siamo circondati dall’acqua. Acqua dal cielo, acqua nel mare oggi grigio come il ferro, acqua che scende con innumerevoli cascate lungo i ripidi pendii delle montagne.
Giuseppe mi dice: “Oggi non faremo tante soste, perché piove.” ...Non è così! Il paesaggio in bianco e nero ha un suo fascino e le fotografie non possono attendere.
A pochi chilometri da Bakki, svoltiamo a destra lungo la costa tondeggiante della penisola di Reykianesfjall. C’è bassa marea. Il mare è un labirinto di cordoli rocciosi. Sostiamo al camping di Reykhólar, un piccolo villaggio avvolto dai vapori delle sue acque termali.

SAGA (13 luglio)

I vichinghi sono stati i primi abitatori dell’Islanda. Essi sono stati chiamati norreni, popoli del nord. Della loro civiltà non si hanno testimonianze dirette, perché tale popolazione non conosceva la scrittura e la sua cultura era tramandata oralmente. Ciò che è giunto fino a noi sono i manoscritti medioevali dei monaci. In particolare le due versioni dell’Edda, la più antica produzione letteraria islandese.
Da quando siamo in Islanda, più volte abbiamo visto cippi e osservato quadri, che indicavano qualche avvenimento storico o epico avvenuto in quel luogo. Purtroppo essendo tutto scritto solo in islandese, era per noi incomprensibile. La lingua islandese è molto antica ed è rimasta immutata nel tempo. Ha lettere che non appartengono ai nostri alfabeti moderni. E’ considerata dagli islandesi un prezioso patrimonio della loro identità culturale, al punto che per i termini tecnologici non utilizzano quelli diventati internazionali.
Oggi, finalmente, a Laugar riusciamo a conoscere qualcosa dell’antica civiltà dei norreni. Le saghe sono racconti epici di gesta di eroi, famiglie o gruppi, sovente accompagnate da miti e leggende. Nell’anno 1020 Gudrún, figlia di Ósvifurdóttir, era stata promessa sposa a Kjartan Ólafsson, prima che egli partisse per la Norvegia. Quando il ragazzo tornò in Islanda, scoprì che suo fratello aveva sposato la sua fidanzata. Una tresca amorosa molto comune nei tempi antichi, quando le distanze richiedevano lunghi tempi di separazione e le comunicazioni erano quasi impossibili. Gudrún visse a Laugar, dove era ed è ancora presente una polla sorgiva di acqua termale, nella quale era solita fare il bagno. Nella sua vita la donna ebbe quattro mariti, sopravvisse a ciascuno di essi e qui morì. Fa un certo effetto toccare la fredda acqua del ruscello, che scende dalla montagna e lì accanto, la tiepida acqua che sgorga dal sottosuolo e sale in superficie liberando bolle gassose. Di fronte alla piccola piscina di pietra è stato costruito un capanno. Porta inciso dei simboli norrenici per creare atmosfera e funge da spogliatoio per chi volesse fare il bagno.

 

LAVA (13 luglio)

L’Islanda è un paese a elevato gradiente geotermico. I suoi vulcani, le sue solfatare, le sue acque termali, i suoi geyser sono l’espressione di questa realtà. A Grábrókargígar sostiamo per ammirare il vulcano, dichiarato nel 1962 Monumento Nazionale. La sua scura mole, appena ricoperta di licheni e muschi, si staglia nitida contro il cielo ancora grigio. Una scala di legno, che sale a elica lungo il suo cono, conduce fino al cratere, preservando il suolo per la flora pioniera. I vulcani islandesi hanno la lava a basso contenuto di ossido di silice, cioè la loro lava è basica, molto fluida, quindi i coni non sono molto elevati e i crateri sono piuttosto ampi. La bassa viscosità della lava, fa sì che lecolate si espandano su ampi fronti e si allunghino anche per diversi chilometri. Mentre il raffreddamento superficiale della lava è rapido, così che la pietrificazione ècrostosa e porosa secondo la quantità di gas che contiene e che si liberano nell’aria,il consolidamento della lava sottostante è un processo che si protrae nel tempo.Ciò consente ai minerali di organizzarsi in precise strutture cristalline, secondo la loro composizione.La lava basica dà origine alle rocce basaltiche. Raggiungiamo il margine del cratere. L’invaso sottostante è un profondo imbuto ricoperto dal nero pietrisco. Dà la sensazione di essere ancora instabile. Riprendiamo il camper, transitiamo per altre zone vaporose e ci fermiamo a Husafell.
Il fiume Hvita nasce dal ghiacciaio Langjökull. Raggiunto l’altopiano lavico, vi scorre sopra rapido e limaccioso, ma non tutto. A Hraunfossar precipita con una cascata in una profonda e stretta forra. La sua grigia acqua serpeggiaschiumando nel canyon e, quando esce, ritrova l’acqua che si era infiltrata sotto la coltre lavica. Questa crea un originale spettacolo precipitando dal margine destro del canyon con innumerevoli salti. Il quadro naturale è davvero singolare e di grande effetto.

REYKJAVIK (14 – 16 luglio)

Mentre apprezziamo la diffusa distribuzione dei campeggi, abbiamo qualche appunto da fare circa la loro organizzazione. Abbiamo trovato in piccoli villaggi campeggi con stalli pianeggianti, dotati di prese per l’acqua e camper service, non troviamo nel campeggio della capitale e in quelli di altre cittadine la possibilità di caricare l’acqua e di scaricare i rifiuti idrici e organici, se non andando nel sito indicato, distante qualche chilometro dal campeggio. In alcuni campeggi non ci sono neppure le docce. Questo non è un problema per noi che abbiamo il camper, ma come fanno i turisti che alloggiano nelle tende o nei mezzi furgonati, che in questo paese sono molto diffusi?
L’Islanda, che ha un flusso turistico che s’incrementa del 20% ogni anno, non è ancora riuscita ad adeguarsi dignitosamente alla nuova richiesta di alloggio plen-air, nonostante che il parco macchine a noleggio: automobili 4x4, fuoristrada, automobili attrezzate a mini camper, come i simpatici happy camper, camper veri e propri, circolano sulle strade in ogni regione, recando valuta pregiata e benessere.
La distanza tra Borgarnes e Reykjavik è di circa 70 km, se si supera il fiordo Hvalfjördur attraverso il tunnel sottomarino, diventa di 120 km, se si percorre la costa del fiordo. Questa mattina piove a dirotto, noi non abbiamo particolare fretta, perché l’unica meta prevista è l’arrivo nella capitale, perciò decidiamo di seguire la strada più lunga. La scelta ci premia, perché abbandonata la R1 iniziamo a percorrere in completa solitudine una gradevole strada dal punto di vista paesaggistico.
Anche il tempo apprezza la nostra scelta. Si alza un vento teso, che smuove la coltre di nubi, apre il cielo e fa cessare la precipitazione.Pranziamo in un’area pic-nic accanto a una piccola cascata e poi sul fondo del fiordo troviamo il fiume Laxá i Kjós impegnato a scendere verso il mare mediante una bella cateratta.
Giunti a Reykjavik, sostiamo nel campeggio cittadino, che ci dà la possibilità di fare il bucato.
Anche in Islanda c’è il weekend dell’impiegato: piove. Il campeggio dista circa 3 km dal centro città.
Milanesi non lamentiamoci! Da noi il bus costa 1,50 € e ha la validità di 90’. Qui una corsa costa l’equivalente di 4,50 €. Il cavallo di san Francesco è la scelta migliore per contenere almeno un po’ le spese. Con una bella camminata sotto qualche spruzzata d’acqua raggiungiamo il cuore della capitale più settentrionale d’Europa. La città è in crescita e in trasformazione. Accanto alle piccole e caratteristiche case di legno colorato sono sorti o sono in costruzione moderni palazzi di vetro e cemento. Troviamo la città animata. Qui abitano i due terzi della popolazione di questa nazione, che sono circa 330000. Circolano inoltre per le strade cittadine frotte di turisti provenienti dal mondo. Lungo la sua via principale, non ancora contaminata dai marchi delle grandi firme, si sentono parlare diversi idiomi. Nel panorama cittadino spicca il campanile della chiesa di Hallgrim. Ha una struttura simile a quella di Akureyri, perché è stata edificata dallo stesso architetto e sulla base del medesimo progetto. Una sorta di paghi uno e prendi due! Le alte colonne prismatiche della sua struttura ricordano quelle di basalto, che sono l’ossatura di questa grande isola emersa dall’oceano Atlantico. Il suo interno è sobrio e disadorno, essendo in stile neogotico. La chiesa ha un bellissimo organo di 5275 canne. Due organisti lo stanno suonando a quattro mani e quattropiedi. Il concerto è però poco fruibile, a causa del continuo via vai dei turisti, noi compresi. Davanti alla chiesa è presente la statua del vichingo Leifur Eiriksson, che nell’anno mille fu il primo europeo a sbarcare in America, ma noi rimaniamoorgogliosi del nostro Cristoforo Colombo, che nel 1492 fu il primo a capire, che quella terra era un nuovo continente. Raggiungiamo poi la cattedrale. E’ una piccola chiesa in stile neoclassico. La troviamo chiusa, perché nei weekend è aperta solo per il servizio religioso. Accanto c’è il possente e scuro edificio, costruito con grossi massi di basalto. E’ l’Altpingihús, il parlamento. Proseguiamo il cammino nella stessa direzione fino alla chiesa cattolica. Qui prendiamo nota dell’orario delle messe domenicali poi ci dirigiamo verso il vecchio porto, che è diventato una vivace zona commerciale riguardo le escursioni per l’avvistamento dei puffin e delle balene. Numerosi sono i ristoranti, offrono piatti appetitosi, dai costi proibitivi, prezzo minimo: 50 €. Se ci si accontentasse di una pizza margherita, l’esborso sarebbe di 25 €.
Optiamo per una cena più sostanziosa sul camper e in una libreria con caffè pranziamo con un cappuccino e un muffin. Poi nel panificio pasticceria di via Frakkastigur, acquistiamo un dolcetto per la nostra festa di domani. Il pasticcere è un bell’esemplare di vichingo.
A Reykjavik torneremo in una delle prossime domeniche, pertanto terminiamo così la nostra prima visita. Senza scendere dal cavallo di san Francesco torniamo in campeggio.

VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA (17 – 20 luglio)

Per comprendere cosa significa per un territorio essere geologicamente giovane,bisogna percorrere la lunga e stretta penisola di Snaefellsnes. Da Reykjavik risaliamo verso nord, transitiamo attraverso il tunnel e velocemente raggiungiamo Borgarnes. Sostiamo brevemente per rimpinguare la dispensa. Qui uno accanto all’altro sono presenti i discount delle due uniche catene commerciali presenti nel Paese: il Bonus, facilmente individuabile per il roseo maialino, che caratterizza la sua insegna e il Netto. In Islanda non esistono negozi alimentari, c’è solo qualche fornaio e non esistono altri supermercati, se non alcuni mini market. I due discount hanno un aspetto deprimente, ma bisogna adattarsi. Anche se un po’ più caro, noi preferiamo il Netto, perché ha una maggiore varietà merceologica e un layout più confacente alle abitudini continentali. Nei discount non sono venduti alcolici, se si esclude la birra a bassa gradazione. Gli alcolici sono venduti nel vínbúdin, dei negozi statali. Per scoraggiare l’alcolismo, sugli alcolici grava una pesante tassazione. Alcuni esempi: un litro di vino in cartoccio costa l’equivalente di 15 €, un litro di vino in bottiglia costa in media 50 € e una bottiglia di superalcolico costa in media 100 €. Noi non siamo grandi bevitori. Quest’estate birra leggera, acqua e Coca Cola zero!
Superato Borgarnes la strada procede verso nord attraversando un verde territorio agricolo, dove l’allevamento equino è l’attività maggiormente praticata. La penisola dello Snaefellsnes offre da subito un ambiente completamente diverso. Pietraie e campi di lava occupano estese porzioni di territorio, circondate da coni vulcanici e da alte montagne nere. Dalle sommità di queste bocche di fuoco, ormai spente, scendono torrenti, che si distendono nei piccoli laghi. La strada, tagliata su questa giovane roccia, supera diversi fronti lavici fino a raggiungere la catena montuosa Helgafell, ritenuta sacra, perché sulla cima di una sua collina sono presenti i ruderi di un antico monastero, così dice la guida.
Sostiamo nel campeggio di Stykkishólmur, poi visitiamo il centro abitato. Esso è situato in un’ampia baia, costellata da un elevato numero d’isolotti, di cui uno è prossimo alla costa e con la sua alta scogliera lo protegge dalle mareggiate. Veglia sulla cittadina una moderna chiesa bianca, la cui struttura ricorda la vertebra di una balena. La spina vertebrale è l’alta torre campanaria con quattro campane. Entriamo. Dal soffitto pende una pioggia di lampadine. Peccato non vederle accese, ma in questo continuo giorno non è possibile. Dietro l’altare c’è un bel quadro della Vergine, che tiene tra le braccia Gesù bambino.
Raggiungiamo il porto. Attraverso un ponte passiamo sull’isolotto. Saliamo la scala che porta sul plateau della scogliera e seguiamo il sentiero che conduce al faro. Volgendo lo sguardo tutto intorno si osserva un gradevole panorama. Da una parte la visione sul centro abitato, che qui chiamano città, però la sua estensione è inferiore al nostro quartiere Forlanini, dalle altre parti il fiordo con tutti i suoi isolotti. In cielo s’intrecciano i voli dei gabbiani tridattili. Questi gabbiani hanno sviluppato una perfetta padronanza dell’aria, tale che permette loro di volare sul mare aperto, di vivere in zone molto ventose e di nidificare sulle cenge delle falesie rocciose, sottraendo così le uova e i pulcini agli attacchi dei predatori terrestri e anche dei corvidi.
Tornati al porto, vediamo scaricare da un peschereccio il pescato del giorno. Le casse contengono dei grossi e grassi pesci. Prima di tornare al camper, giriamo tra le vie di questa cittadina. Le belle casette di legno, dalle tinte pastello denotano il buon gusto e il senso estetico di chi abita qui.
Vento, tanto vento. Nella notte rumoreggia, mugola, fischia, ulula e fa ondeggiare il camper. Di mattino, quando apriamo gli scuri, scopriamo che ha sconvolto il cielo. Gli strati di nubi, delle diverse intensità di grigio, che ieri sera si muovevano nella stessa direzione, scorrendo gli uni sugli altri, si sono aggrovigliati, rimescolati e riorganizzati in formazioni globose e volubili. La pioggia inizia a cadere diritta e veloce, con piccolissime gocce, che colpiscono il suolo come una stilettata. Poi aumenta d’intensità e il suo ritmo perde di regolarità e si adegua a quello del vento. Ogni tanto ci illude, sembra smettere, mentre il cielo si rischiara, poi tutto si scurisce di nuovo e altri scrosci si abbattono al suolo.
Peccato. Siamo in una zona, dove il paesaggio è tutto. La mattina è ormai inoltrata. Ci mettiamo in marcia prefiggendoci solo un breve spostamento. Alla base della penisola con una breve deviazione raggiungiamo Helgafell, la piccola altura di 73 metri, che protegge con le sue rocce una fattoria e una chiesetta. Il nome del luogo deriva da quello della prima donna, che ha vissuto tutta la sua vita nella fattoria. Sulla cima della collinetta nel 1084 i monaci agostiniani costruirono un piccolo monastero. Saliamo. Ruderi non ce ne sono, se non un basso muretto che disegna il perimetro di un locale quadrato. Da quassù, però, si ha una bella visuale sul fiordo sottostante. Gli scogli e gli isolotti disegnano un labirinto acquatico.
Tornati alla base, ci rechiamo alla chiesetta. Tutta bianca, rifinita di rosso, spicca nel verde del piccolo cimitero, che la circonda. Il suo campanile termina con una cuspide ottagonale. La chiesa è chiusa. Recitiamo una preghiera per questi defunti, la cui sepoltura è segnalata da una croce di legno bianco con inciso le date di nascita e di morte.
Proseguiamo il viaggio. Il tempo ci dona un po’ di tregua. La strada ci conduce dentro un’estesa zona lavica. La colata ha raggiunto il mare. L’effetto cromatico è spettacolare. Il nero della crosta ben contrasta con il giallo del muschio che la sta colonizzando e che mette in risalto le pieghe delle pendici dei vulcani. Spenti? Quiescenti? Speriamo non attivi in questi giorni.
Sostiamo per la pausa pranzo in un’area pic-nic, che è rivolta verso il fondo del Kolgrafjödur, che è racchiuso da scure montagne innevate. Dei cartelloni turistici sono interessanti. Illustrano due fatti di vita reale avvenuti qui in anni recenti e una saga di epoca passata. Nel 2012 e nel 2013 in questo fiordo morirono 52000 tonnellate di aringhe. Questi grandi banchi di pesci giunsero nel fiordo attirati dalla notevole quantità di zooplancton, a sua volta legato all’abnorme proliferazione di alghe, dovuta a un innalzamento termico dell’acqua. L’eutrofizzazione del fiordo provocò la morte in massa per asfissia delle aringhe.
Questo stesso luogo custodisce la memoria della saga d’Eyrbyggia, che tratta della storia delle famiglie indipendenti, che vivevano nella penisola, ai tempi del colonialismo del XIII secolo.
Intanto la bufera di vento e la pioggia hanno aumentato la loro intensità. Le nubi si abbassano dalle cime e si depositano come un velo sui pendii, cancellando, purtroppo, il paesaggio. Poco più avanti c’è un cromatico vulcano, il cui cono avrebbe meritato il nostro ricordo. E’ fatto di strati orizzontali di diverse sedimentazioni minerarie. La pioggia e il grigiore uniforme alienano la sua bellezza. La fotografia non rende onore alla sua originalità.
Alle ore 14.45 sostiamo nel campeggio di Olafsvík, perché non ha senso viaggiare senza poter ammirare il paesaggio. Scelta intelligente. Il campeggio è piccolo. Ospita già alcuni equipaggi. Dopo il nostro ne arrivano diversi altri, ma solo tre trovano ancora posto.
La quiete dopo la tempesta inizia verso le ore 23. Bene! La notte non sarà disturbata. Il giorno si presenta promettente. Parte del cielo ha un bel colore azzurro, un’altra parte è ancora cupa e grigia. E’ meglio essere ottimisti, volgiamo lo sguardo verso il sereno, che riflette il nostro stato d’animo.
Dal campeggio raggiungiamo il paese. Olafsvík ha come sfondo una cascata e una moderna chiesa, edificata nel 1967. La sua architettura ricorda la forma di una barca. L’architetto, che l’ha progettata, l’ha ideata così nel rispetto del contesto sociale del paese, dove la pesca e le attività a essa connesse sono prevalenti.
Partiamo e continuiamo il giro della penisola seguendo il senso antiorario. Dopo neppure una decina di chilometri sostiamo. Siamo a Rif, un piccolo villaggio sulla punta settentrionale della penisola. Nel suo porto fervono le attività ittiche. Alcuni pescherecci stanno prendendo il largo, altri sono appena approdati. Nei capannoni adiacenti ai moli la lavorazione del pescato è in atto. Si sentono i macchinari in funzione. I muletti, che sollevano e trasportano le grandi casse colme di pesce, fanno la spola tra il molo e i magazzini.Sui prati alle spalle del porto centinaia di sterne hanno costruito il loro nido. Questi uccelli vivono in colonie, ma non sono collaborativi tra loro. E’ un continuo alzarsi in volo e un rincorrersi per difendere la propria zona di nidificazione o per cercare di sottrarre dal becco del proprio simile il pesce appena catturato. Questa esagerata vitalità entusiasma Giuseppe, che monta il teleobiettivo e inizia a scattare. Il fotografo non ha però fatto i conti con questi aggressivi volatili. Alcuni si fermano in volo sopra di lui e lo minacciano con acute strida e poi lo bombardano, non dico come, perché è facile intuirlo. Risultato finale: bellissime fotografie e un pile da lavare!
Nuova partenza e altra sosta. Una chiesetta si staglia isolata contro il cielo. Lasciamo la strada principale e ci dirigiamo verso l’interno. La Ingjaldshóskirkja è stata costruita nel 1903 ed è la più antica chiesa in muratura d’Islanda. La troviamo chiusa. Torniamo indietro, Ora la strada si stacca dalla costa e compie un’ampia ansa verso l’interno. Un cartello indica che il territorio è nel Parco Nazionale Snaefellsnes. Il paesaggio cambia completamente. Siamo circondati da una vasta, ampia, estesa, enorme, immensa distesa di lava. Gli aggettivi usati per descrivere questo incredibile ambiente non bastano se letti singolarmente, ma tutti insieme danno un’idea di cosa è successo migliaia di anni fa. Lo Snaefell è una montagna alta 1446 metri. Si è formata quando il vulcano presente sotto la calotta glaciale esplose e il suo serbatoio magmatico divenne una caldera, oggi occupata dal ghiacciaio omonimo. L’enorme esplosione lanciò in aria lapilli e bombe vulcaniche, che caddero anche molto distanti e fece scorrere sul suolo fiumi di lava, che raggiunsero il mare. Dal muschio dorato che ricopre i cordoni lavici, sporgono, nere e taglienti, le creste dei massi. Dove il magma fluido si è raffreddato velocemente, il suolo presenta una grande quantità di calotte erbose, dovute ai gas, che il magma, solidificandosi, non ha liberato nell’aria. Intorno alla grande montagna, che tiene nascosta la sua bellezza celandola sotto un grigio cappello di nubi, ci sono elevati crinali di lava e ceneri, fronti lavici e crateri secondari.

A Saxhöll è possibile salire su un vulcano. Una lunga scala metallica avvolge una parte del cono e conduce fino al bordo del cratere. Nella nera cenere avanza la vita. Spicca con i suoi piccoli fiori bianchi la sassifraga. Il cratere è racchiuso tra rugose e ruvide rocce. Non si può scendere sul suo fondo, perché il suo invitante tappeto erboso sembra celare la porta dell’inferno. Ha avuto ragione Jules Verne a iniziare il suo “Viaggio al centro della terra” in questa zona, dove ci sono anche delle grotte laviche. Sostiamo ancora alla spiaggia di Djúpalón. E’ circondata da alte pareti rocciose e la sua nera ghiaia è molto affollata. Questo luogo è famoso, quindi è meta anche dei turisti scaricati dai bus. La peggior specie di vacanzieri: chiassosi e invadenti si arrampicano ovunque per farsi immortalare come se avessero scalato impervie pareti.
La sosta però merita la nostra presenza paziente. Lasciamo calmarel’euforico clamore dei giapponesi, le bravate dei russi, le ridicole imprese di altri turisti e riusciamo a fotografare ciò che la terra con la sua artistica forza ha modellato. Ci avviciniamo al mare. Abbandonatisul litorale sassoso, ci sono i rottami del peschereccio britannico Epine GY7, che il 13 marzo 1948 naufragò. Un cartello spiega la tragedia: solo cinque dei diciannove membri dell’equipaggio si salvarono. Ci sono anche quattro ciottoli lavici di diverso peso e dimensioni. Un altro cartello spiega che erano usati dagli armatori per assumere i pescatori. Chi era in grado di sollevare solo il ciottolo più piccolo del peso di 54 kg era scartato.
Il mare s’infrange sulla riva spezzando le sue alte onde contro i faraglioni, che si ergono ad alcuni metri dalla costa. Un’antica leggenda dice che quelle rocce sono i templi dei troll.
L’ultima sosta la facciamo a Malariff. Un faro bianco è posto sulla punta meridionale della penisola. Lo raggiungiamo. Lì accanto c’è una grigia casupola di legno, che è un piccolo museo del mare. Al suo interno conserva l’ossatura di alcune spugne, gli esoscheletri di numerosi ricci di mare e di granchi. In un cerchio di pietre sono presenti alcune ossa di mammiferi terrestri, supponiamo di pecore. Il cartello dice che quelle ossa erano i giocattoli dei bambini. Fuori dalla casupola ci sono tre costole di balena e grandi frammenti di altre ossa del cetaceo.
In questo luogo non c’è il grande flusso turistico trovato poc’anzi. Il mare fa il suo lavoro; con il flusso e riflusso trascina avanti e indietro i frammenti di lava, che sono già diventati lisci ciottoli bucherellati. Dove la terra precipita nell’acqua con una scogliera, i flutti rimbombano tra gli anfratti, l’acqua sfrigola, spumeggia, salta, si divide in innumerevoli goccioline, che scintillano illuminate dal sole.
Infine nel tardo pomeriggio ci fermiamo ad Arnarstapi.
Pioggia nella notte e anche questa mattina. La gita fino alla base del ghiacciaio fallisce prima ancora di essere intrapresa. Non avrebbe senso incamminarci sotto la pioggia, perché le nubi stanno scivolando verso il basso alienando qualsiasi orizzonte. Sperando che il tempo migliori almeno un po’, visitiamo il villaggio di Arnarstapi. Chiamarlo villaggio è troppo. Accanto al suo porticciolo, protetto da alte scogliere, sorgono le quattro casette dei pescatori. Le altre abitazioni sono cottages di vacanza. In questo villaggio è iniziato il “Viaggio verso il centro della terra” narrato da Jules Verne. Sulla guida abbiamo letto che c’è un cartellone che lo ricorda. Giriamo infruttuosamente tra le case. Arriva l’ora di pranzo. Mentre Paola cucina il risotto alla milanese, Giuseppe sfida ancora le sterne sul loro territorio. Altre fotografie, altri rischi, non solo suoi!
Dopo pranzo partiamo. Lo sguardo attento e analitico di Paola vede quello che era davanti agli occhi. Accanto alla casetta con il tetto erboso, vicino al campeggio, c’è ciò che invano abbiamo cercato questa mattina. Posteggiamo e scendiamo dal camper. Oltre al cartellone in onore dello scrittore francese, c’è una palina che indica quanto distano da qui diverse località del mondo, passando per il centro della terra. Stromboli, che è il vulcano dove ha termine l’avventura narrata nel fantastico libro, dista 2434 km.
Riprendiamo il viaggio per terminare il giro della penisola. Dopo pochi chilometri sostiamo al Raudfeldar canyon, un’alta e profonda fenditura sulle pendici del grande vulcano. Sul fondo del canyon scorre il torrente. Secondo la leggenda mitologica questo luogo era abitato da un mostro, mezzo uomo e mezzo troll. Passando sui sassi e appoggiandoci all’umida parete, risaliamo il torrente ed entriamo nell’oscuro antro. La tentazione di penetrarlo più a fondo, immaginando il “Viaggio verso il centro della terra” è forte. La risalita del torrente è però difficoltosa, perché ha molte cascatelle e pochi massi affioranti. Bisognerebbe avere il coraggio di bagnarsi completamente, ma come proteggere la macchina fotografica? Torniamo sui nostri passi. Il sentiero percorso a ritroso ci offre un quadro davvero bello: a destra l’alta scogliera lavica, a sinistra il piatto litorale dalla spiaggia ambrata, alle cui spalle ci sono dei laghi salati. L’ultima tappa odierna è a Búdir, dove in prossimità di un campo lavico, a qualche decina di metri dal mare, sorge una chiesetta di legno marrone scuro. E’ stata costruita, dove era presente una chiesa del 1703. La parrocchia ha cessato di essere tale nel 1816, quando il piccolissimo villaggio di pescatori scomparve. Il giro della penisola lavica termina con il nostro ritorno a Borgarnes. Se la lava fosse una roccia pregiata, l’Islanda sarebbe ricchissima!

LAXNESS (21 luglio)

Dopo aver visto nel nord del Paese la terra dove è ambientato il romanzo “Gente indipendente” di Laxness, visitiamo a Gljúfrasteinn, che dista qualche decina di chilometri da Reykjavik, la casa dove lo scrittore visse con la sua famiglia dagli anni ’50. La casa in muratura è stata costruita in una zona di campagna vicino a un fiume. Ancora oggi il territorio è suddiviso fra diverse fattorie. L’ambiente rurale, prossimo alla città, ha segnato la letteratura di Laxness, insieme alle saghe, che gli hanno raccontato fin dalla prima infanzia.
Nel giardino di fronte all’ingresso è posteggiata la sua Jaguar bianca.
Viva i capelli bianchi di Giuseppe! Paghiamo il biglietto ridotto dei pensionati. E’ vero che lo siamo, ma qui è considerato pensionato chi ha compiuto 67 anni. L’audioguida è in islandese, inglese, tedesco. Entriamo nell’abitazione. Indossiamo delle sovra scarpe di feltro per non sporcare il parquet dei locali. L’ingresso è un piccolo quadrato da cui parte la scala che conduce al piano superiore. Esso dà accesso alla cucina e al salone. In questo piccolo vano è presente un orologio a colonna. Il salone è diviso in due ambienti: da una parte la sala da pranzo e dall’altra l’ampio salotto. La sala da pranzo ha un lungo tavolo e una credenza con l’argenteria di famiglia. E’ separata dalla cucina da un mobile verde, che ha una finestra porgi vivande. Il salotto ha la forma di un rettangolo, due pareti sono finestrate e danno sulgiardino, dove c’è la piscina termale.Due lunghi divani, alcune poltrone, due tavolini, il camino e il pianoforte sono l’arredo. Laxness amava la musica di Bach e questa ci accompagna durante la visita. Sul camino e sui tavolini ci sono diversi oggetti di artigianato provenienti dall’Asia orientale e dall’Africa nera. Alle pareti, rivestite di legno, sono appesi degli arazzi con motivi etnici.
Il piano superiore ha quattro locali e i servizi. Le camere sono due, con letti singoli. Deduciamo che Laxness e sua moglie, avanti negli anni, dormissero in camere separate. Le pareti delle camere sono principalmente occupate da librerie. Negli spazi liberi sono appesi quadri astratti, come sulla scala. In una libreria sono conservati i sessanta libri scritti dal premio Nobel in tutte le traduzioni. Lo studio è un’unica libreria, così come il piccolo locale biblioteca.Sulla scrivania c’è la macchina per scrivere Remington, pronipote della No.1 che è stata la prima macchina per scrivere di successo commerciale.

LA DERIVA DEI CONTINENTI (21 luglio)

La penisola a sud ovest della capitale è un’ambita meta turistica, perché ha la rinomata Laguna Blu, una spa che sfrutta l’acqua termale del luogo. Noi siamo dei terricoli, pertanto non cadiamo vittime delle sirene della Laguna Blu, ci dedichiamo al territorio. Esso, pur non avendo paesaggi spettacolari, ha un suo fascino, soprattutto sulla punta e lungo la costa meridionale. La penisola di Reykjanes è sicuramente una regione povera e senza una propria identità. Quasi tutti i villaggi di pescatori sono scomparsi e i nuovi insediamenti sono delle disordinate conurbazioni satelliti della capitale. La punta è presidiata da due fari, costruiti in epoche diverse: nel 1897 il più basso e nel 1944 quello più alto. Il faro più vecchio era alimentato con il petrolio. Il guardiano, che abitava nell’angusto locale della sua base, durante i mesi di totale buio ogni quattro ore doveva provvedere affinché la fiamma non si spegnesse. Due vecchi pescherecci ormai in secca ricreano l’atmosfera del tempo passato. Questa zona è anche il luogo dove molte specie di uccelli migratori sostano. Siamo quasi a fine luglio, le migrazioni si sono ormai compiute e non è ancora il tempo del contro esodo. Alcuni uccelli hanno però scelto questa punta come loro meta estiva. Riconosciamo oltre alle sterne, l’edredone comune e il piovanello violetto. L’edredone è un’anatra marina con un forte dimorfismo sessuale. Il maschio ha un piumaggio bianco e nero e la nuca verde, la femmina è di colore bruno e si distingue dalle altre anatre per la dimensione della testa, che è più grande. L’edredone vive una vita sociale cooperativa. La colonia è sulla spiaggia. Giuseppe con cautela si avvicina. Le madri e i pulcini sono tranquilli. Quando sulla spiaggia arriva un cane, si tuffano nel mare. Alcune femmine, però, si trattengono sulla riva fino a quando tutti i pulcini sono al largo.
Il piovanello violetto è un piccolo trampoliere. Il maschio non si distingue dalla femmina. Entrambi hanno il piumaggio screziato, che consente loro di mimetizzarsi bene sugli scogli, dove durante la bassa marea cercano i molluschi, loro cibo preferito.
La costa meridionale della penisola è alta. Il suo interno è un esteso deserto lavico, nelquale è assente l’antropizzazione. Nella zona del Parco dei Cento Crateri seguiamo la deviazione segnalata come Brú milli heimsálfa,conduce al rift della dorsale medio oceanica. Milioni e milioni di anni fa, l’antico continente Pangea, che era costituito da tante placche vicine le une alle altre come i pezzi di un puzzle, iniziò a frantumarsi. Il fenomeno fu spiegato bene da Wegener nel 1912 nella sua Teoria della Deriva deiContinenti. Le diverse placche muovendosi andarono incontro a situazioni differenti. Alcune si scontrano e corrugandosi formano delle catene montuose, altre si scontrano, ma avendo differenti densità s’infilano una sotto l’altra e danno origine allefosse oceaniche e alle catene montuose costiere, altre allontanandosi tra loro formano inuovi oceani, quelle che scorrono le une accanto alle altre, generano le faglie, zone soggette ai fenomeni sismici. Sul fondo dell’oceano Atlantico l’allontanamento della placca euroasiatica dall’americana formò una frattura denominata rift. Esso è un lunghissimo vulcano lineare in continua eruzione. L’Islanda è una delle punte della dorsale, che nel tempo è emersa sulla superficie oceanica. Quest’isola, percorsa da sud-ovest verso nord-est da questa lunga frattura, nel tempo è destinata a dividersi in due parti.Un ponte pedonale unisce le due placche, facendo superare la fossa dal fondo di sabbia lavica. La zona è geologicamente attiva. Più avanti un campo geotermico è sfruttato per la produzione di energia elettrica.
E’ quasi sera. Sostiamo nel campeggio di Grindavik, dotato di ottimi servizi.

 

PIT STOP A REYKJAVIK (22 luglio)

Il connubio vento forte e nebbia è inimmaginabile, ma qui in Islanda, dove è tutto meteorologicamente possibile, è la realtà che ci troviamo di fronte questa mattina. Ci sembra “un dì nuvembrin de la bassa milanesa, ma cun tel vent de Triest” (un giorno di novembre della zona a sud di Milano, ma con il vento di Trieste).
Partiamo verso Reykjavik. La sosta prevista è breve, ma sufficiente per ciò che ci siamo proposti di fare. Arriviamo all’ora di pranzo. Nel pomeriggio con un’ora di camminata siamo in centro. Completiamo la visita della città iniziando dal Tjörnin, il laghetto presente nel suo centro, attorniato dal parco. Percorriamo lo stradello ciclopedonale che lo circonda. A esso si affacciano delle belle ville e il municipio, che ha una carta in rilievo del Paese. Dalla sponda occidentale si ha una piacevole visuale della città. In primo piano spicca la chiesa bianca con i contrafforti verdi, la Fríkirkjan. E’ terminato un matrimonio: gli sposi e gli invitati sono usciti. Quando arriviamo, il gruppo si sta congedando e festosamente si scioglie. Entriamo in chiesa. E’ di stile gotico moderno e ha sopra l’altare, un quadro raffigurante la Resurrezione di Cristo. Una signorina ci dice che deve chiudere la chiesa. Il pastore si affaccia e ci saluta. Facciamo un segno di croce e usciamo. Nel weekend le chiese protestanti sono aperte solo per i servizi religiosi.
Tra il laghetto e la via dello shopping ci sono strade assolutamente non frequentate dai turisti con belle case. La visioned’insieme è armoniosa. Ora è giunto anche il nostro momento dello shopping. Ci è venuta un’idea originale per i nostri amici.
Per raggiungere la chiesa cattolica e partecipare alla messa prefestiva in spagnolo, attraversiamo una grande piazza. C’è allestito un maxi schermo. E’ piena di gente festante: bambini, giovani, adulti. Tutti indossano qualcosa con i colori della nazione. Molti indossano la maglia della nazionale di calcio, sventolano le bandiere e portano in testa il cappello blu con la croce rossa contornata di bianco. I cappelli sono regalati dallo sponsor della nazionale. Anche Paola se ne fa dare uno e per un po’ lo tiene in testa. C’è un’atmosfera serena e famigliare, opposta all’isterismo collettivo che caratterizza il nostro tifo. Si gioca in Olanda la fase finale del campionatoeuropeo di calcio femminile. L’Islanda incontra la Svizzera. Ci stupisce la grande partecipazione di pubblico per un evento sportivo in rosa. E’ un importante segno di riconoscimento della parità tra i sessi.
Lasciamo la piazza e partecipiamo alla messa. Ritornando in piazza notiamo un po’ di delusione sul volto dei vichinghi: la loro nazionale ha perso con il punteggio di 2 a 1. Tuttavia l’aria di festa non è scemata. Così deve essere vissuto un evento sportivo: con passione, ma anche con un certo distacco. Bella lezione!

 

IL CIRCOLO D’ORO (23 – 25 luglio)

Il Circolo d’Oro è il percorso di circa 100 km che parte da Reykjavik, tocca alcune zone interessanti, perché danno in breve l’immagine dell’Islanda e termina nella capitale.
Dopo una lunga dormita partiamo da Reykjavik. Percorreremo questo centinaio di chilometri in più giorni, senza tornare nel punto di partenza.

PINGVELLIR
All’ora di pranzo posteggiamo il camper nel camping presente presso il centro informazioni del Parco Nazionale di Pingvellir. Esso è il primo parco nazionale islandese, è stato istituito nel 1930 e dal 2004 è stato dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Qui recuperiamo la mappa dei sentieri.
Alle ore 14.30 ci incamminiamo lungo un sentiero tagliato nel bosco. Leconifere creano un ambiente alpino, a noi molto caro.Il sentiero sbocca, dove da un parcheggio stradale sale un tracciato turistico pedonale.Di fronte a noi chiude ogni visuale la massiccia e stratificata parete basaltica, che segna un lato del rift, che attraversa l’Islanda dividendosi in due rami. Incutono un certo timore, i grossi massi, che s’innalzano come pinnacoli. Alcuni sono incastrati tra due rocce e formano delle finestre. Inquadrano il cielo, che finalmente sta tornando azzurro. Altre rocce sembrano imitare le sembianze di svariate figure. Una in particolare attira la nostra attenzione: assomiglia al profilo di una scimmia. Il territorio circostante dimostra tutta la sua giovinezza geologica. Osserviamo ammassi di lava stratificati gli uni sugli altri, profonde fratture, alcune delle quali sono piccoli laghi tettonici,alimentati da sorgenti sotterranee, corsi d’acqua, che dopo aver percorso decine di chilometri sotto spessi strati di lava, emergono in superficie e precipitano dall’altopiano dentro la fossa tettonica. Molto spettacolare è il fiume Öxará, che nasce dal ghiacciaio Langjökull. Lo vediamo saltare dal bordo della placca sul fondo della fossa con una sonora cascata e poi scorrere impetuoso dentro la fossa stessa, uscire attraverso un varco, adagiarsi in un ampio letto e raggiungere lentamente il lago Pingvallatn, il più esteso del Paese. Qui miscela la sua fredda acqua con quella calda di una sorgente termale presente sulla riva opposta del lago. Questa condizione termica e la ricchezza di sali minerali creano una situazione ottimale per lo sviluppo di numerose forme di vita, in particolare quella del salmerino alpino, che si nutre d’insetti, di larve e piccoli crostacei. Questo pesce è molto simile alla trota e si differenzia da essa perché ha le pinne pettorali, ventrali e quella anale con il bordo bianco. Inoltre il maschio durante il periodo riproduttivo colora le medesime pinne e il ventre di rosso.
Superato il fiume Öxará arriviamo al “Luogo” per eccellenza dell’Islanda: l’Alpingi. Esso è il luogo storico e culturale di questo antico e giovane Paese.
Il primo colono che approdò in Islanda fu Ingólfur Arnarson nell’anno 874.
A esso e alla sua famiglia seguirono altri coloni. Tutti provenivano dalla Norvegia, fuggivano dalla tirannia del re di quell’epoca. Con il trascorrere degli anni le diverse comunità sparpagliate sull’isola sentirono la necessità di dotarsi di strumenti condivisi per amministrare il territorio e la giustizia.
Nell’anno 930 si riunirono in questo luogo. Si costituì così un’assemblea. Il termine Alpingi significa pianura dell’assemblea. Scelsero questo luogo perché era prossimo a un corso d’acqua, vicino a una zona pianeggiante dove poter impiantare le tende e facilmente raggiungibile da ogni parte dell’isola, anche se distante molti giorni a cavallo. La pianura è dominata dal Lögberg, la Roccia della Legge, la scura parete della frattura tettonica. Il presidente dell’assemblea, che rimaneva in carica per un triennio, parlava a voce alta rivolto verso la roccia e questa amplificava la sua voce, che giungeva chiara alla popolazione radunata nella piana sottostante. Egli riferiva le decisioni prese dalla Logretta, formata dai quarantotto capi clan, ciascuno accompagnato da due consiglieri e, con l’avvento del cristianesimo, anche da due vescovi. L’Alpingi, che si riuniva una volta ogni anno, era anche un grande evento sociale. L’incontro consentiva la costruzione di relazioni, la combinazione di matrimoni, lo scambio di esperienze e di merci. L’Alpingi rimase in vigore fino al 1264, poi perse la sua importanza, perché a causa di disaccordi tra famiglie potenti, l’Islanda passò sotto la corona norvegese e più tardi sotto quella danese. Il 17 giugno 1944 in questo luogo fu firmato il trattato d’indipendenza. La bandiera nazionale sventola sul Lögberg per ricordare a tutti l’orgoglio di questa gente indipendente.
Il nostro cammino prosegue, scendiamo nella piana, attraversiamo il fiume Öxará poco prima che s’immette nel lago Pingvallavatn. Sulla sponda opposta sorge la piccola chiesa di Pingverill. E’ di legno bianco con i profili verdi. E’ stata costruita nel 1859, dove nell’anno 1000 fu eretta la prima chiesa. Vicino a essa ci sono degli edifici costruiti in occasione del millennio dell’Alpingi.
Torniamo verso il campeggio percorrendo la sponda sinistra del fiume Öxará. Qui incontriamo una nutrita colonia di oche selvatiche, che per nulla intimorite, si lasciano avvicinare e fotografare. Raggiunta nuovamente la cascata, camminiamo dentro un altro tratto della frattura tettonica fino a raggiungere la strada carrozzabile, che seguiamo fino al campeggio. Sono ormai le ore 18.00, il sole si nasconde dietro le consuete nubi serotine e il campeggio inizia a riempirsi di tende e camper di ogni tipo e dimensione.

GEYSIR
Partiamo tardi, perché l’area geotermale di Geysir dista pochi chilometri da dove siamo. Preferiamo percorrere la strada più lunga e più panoramica, quella che costeggia il lago Pingvallavatn, che ha al suo interno diversi isolotti. Superato il lago, la strada attraversa un bolloso campo di lava, tutto ricoperto di soffice muschio, che lo fa sembrare rivestito di velluto.
Sostiamo nel campeggio prossimo al geysir: un’area geotermica molto interessante. Essa non è la più estesa del Paese, ma è la più spettacolare. E’ quella che ha reso famosa l’Islanda e dalla quale ha preso il nome, il particolare fenomeno di vulcanesimo secondario: geysir, in inglese geyser. Prima ancora di entrare nell’area ci elettrizza il forte odore di zolfo, che si libera dal ruscello, che da essa esce. Appena varcato il cancello, un cartello avverte i turisti, che ci si muove in una zona pericolosa a proprio rischio. L’area dei soffioni e dei geyser è limitata da delle funi, su cui sono appesi i cartelli che indicano la temperatura dell’acqua: 80°C - 100°C.
Molta gente è ferma davanti a un piccolo cratere, che borbotta e ogni tanto spruzza in alto qualche getto d’acqua. Ci fermiamo e aspettiamo la grande fontana, invano. Infatti, questo piccolo cratere dà solo il benvenuto e un assaggio del grandioso spettacolo che desideriamo vedere. Avanziamo nell’area. Altri vapori e gorgoglii rallentano il nostro procedere.Come tralasciare ogni particolare? Arriviamo infine al cratere Strokkur. La sua pozza d’acqua gorgoglia. Ci prepariamo al grande evento. Il geyser sembra prendersi gioco di chi è pronto a immortalare con un video la sua impresa. Gorgoglia in continuazione, sobbolle e poi si acquieta. Improvvisamente il centro del cratere si scurisce, l’acqua si rimescola, poi come per magia si forma una calotta cerulea, che subito scoppia lanciando verso il cielo lo spruzzo bianco di acqua calda, alto circa 30 metri. Il vento fa la sua parte e favorisce il volteggio di una miriade di goccioline. Intanto il cratere si riappropria di gran parte dell’acqua lanciata. Un enorme vortice inghiotte ciò che ricade, mentre un po’ di acqua sfugge al suo padrone e, libera, scorre sul tavolato roccioso, depositando cromatici sali. Lo sguardo stupito si perde nel cielo seguendo la nube di vapore,che si disperde nell’aria. Il fenomeno dello Strokkur ha una periodicità di circa dieci minuti. Siamo incantati. Vediamo e rivediamo più volte lo spettacolo della natura. Piùavanti raggiungiamo sua maestà: il Geysir. Questo geyser, molto più grande dello Strokkur, si è formato nel XIII secolo. Lanciava getti d’acqua che raggiungevano gli 80 metri d’altezza. Dal 1916 a causa di un terremoto ha quasi annullato la sua attività, tuttavia rimane bellissimo. Il suo cratere è ricolmo di acqua cristallina di colore azzurro intenso, una spessa concrezionebianca circonda il suo margine e scende a imbuto verso l’interno convogliando lo sguardo di chi osserva verso l’abisso. Gli fanno da corona altri crateri fumanti, che gorgogliano acqua bollente.
Prima di partire per l’ultima tappa del Circolo d’Oro, saliamo sulla collina per guardare dall’alto, ancora una volta, la bellezza di questa terra bollente. Il cielo terso e il sole già alto danno un aspetto diamantino alle rocce sottostanti, immerse nelle nubi di vapore, che creano un’atmosfera di mistero. Dall’altra parte della collina il paesaggio è completamente differente. Una verde valle, solcata da un placido e sinuoso fiume, ospita alcune fattorie e qualche cottages.

 

GULLFOSS
Gullfoss è una cascata di straordinaria bellezza e potenza, che negli anni ’20 del secolo scorso ha rischiato di perdere il suo fascino per essere sfruttata economicamente per la produzione di energia elettrica. La sua salvezza la deve soprattutto alla combattività di Sigridur Tómasdóttir, la donna, nata il 24 febbraio 1871 nella vicina fattoria di Brattholt. Seconda di tredici fratelli, fin da piccola lavorò nei campi e insieme alla sorella accompagnava i visitatori a vedere la cascata, avendo tagliato il primo sentiero per raggiungerla. Quando un gruppo d’imprenditori stranieri acquistò dal governo centrale la concessione per lo sfruttamento della cascata, cercò in tutti i modi di far annullare il contratto. Si recò perfino a piedi scalzi fino a Reykjavik. La sua strenua battaglia e il mancato rispetto delle scadenze di pagamento da parte degli imprenditori, invalidarono il contratto. La cascata era salva.
Sigridur morì nella sua fattoria nell’autunno del 1957. Nel 1975 la cascata fu donata al Paese e divenne una riserva naturale. Tre anni dopo fu eretta una stele in memoria dell’eroina della cascata.
Il fiume Hvitá nasce dal ghiacciaio Langjókull. Ai piedi del ghiacciaio è immissario ed emissario di un lago, riceve diversi affluenti, accresce la sua portata e scorre vigoroso in un ampio letto. La sua torbida acqua non sembra aver paura di saltare nel vuoto. Prende la rincorsa in una rapida e si affaccia sul primo fronte convesso già carica di velocità. Nel primo salto di 11 metri si rimescola e schiumeggia, ma appena tocca il fondo la attende il baratro. Ripiomba più in basso con un balzo assordante di 21 metri, che la costringe in un profondo e lungo canyon. Una nuvola di spruzzi si alza nell’aria e bagna chiunque percorre il sentiero.
Lasciamo il Circolo d’Oro, attraversiamo un esteso altopiano dove fiorente è l’attività agricola. Non solo pascoli ed erbai, ma anche campi coltivati. Raggiungiamo il Ring e lo percorriamo per qualche chilometro, poi ci dirigiamo verso le montagne, che da lontano con i loro ghiacciai sembrano invitarci. Man mano che avanziamo, le montagne svelano la loro essenza. Sono vulcani ricoperti di neve e ghiaccio, che con la loro attività hanno riversato ai loro piedi cumuli di lava e ceneri, disegnando brulle colline e aride vallate. Sostiamo al campeggio di Leirubakki, di fronte al bianco vulcano Hekla.

LANDMANNALAUGAR (26 luglio)

Per raggiungere Landmannalaugar occorre percorrere la pista F225 aperta solo ai mezzi 4x4. Alle ore 8.30 si ferma davanti al campeggio di Leirubakki il bus di linea Trex. Ci sediamo nei posti dietro l’autista, ottima posizione per vedere il tracciato e il panorama. Puntuale alle ore 8.40 parte. Dopo aver percorso pochi chilometri, dove termina la strada asfaltata, svolta a destra e inizia a seguire la pista. Siamo nella Riserva naturale di Fjallabak. Il fondo della strada sterrata è tormentato da buche e sassi. L’autista guida sicuro e veloce per quanto sia possibile. Intorno a noi c’è un’aspra landa disabitata di cenere e lava e sullo sfondo il vulcano Hekla. Esso è il più famoso vulcano islandese, con la sua possente mole, che raggiunge i 1491 metri di altitudine, tutto imbiancato di neve, sembra un’innocente montagna. Invece, al suo interno è tutto un fermento, tanto che nel Medioevo credevano che fosse la porta dell’inferno. La sua posizione al centro della frattura tettonica, che sta dividendo l’Islanda, lo rende molto attivo. Le sue ultime eruzioni sono state nel 1980, 1991 e 2000. I vulcanologi, che lo tengono in costante osservazione, ritengono che potrebbe eruttare nuovamente in qualsiasi momento. Speriamo non oggi, visto che ci stiamo avvicinando sempre più alla sua base. Superiamo la deviazione per l’Hekla e ci dirigiamo verso Landmannalaugar. La pista sale con curve strette, supera un fronte lavico, poi scende in una vallata attraversata da un fiume, che dà un respiro di vita al territorio. Alcune pecore pascolano placide nella brughiera. Tre sono là in fondo in mezzo alla pista. Ferme ci guardano avanzare e solo dopo che l’autista ha frenato, con due saltelli si scostano. Più avanti un grande lago circondato da montagne innevate dà un’immagine alpina a questa terra subpolare.
Saliamo ancora un po’ e poi una ripida discesa ci porta al primo guado. Lentamente il bus entra in acqua e riprende la sua corsa sulla sponda opposta. Ecco ora i primi incroci. Ci sono delle automobili che stanno percorrendo la pista in senso contrario. Alcuni incroci sono facili, perché avvengono dove ci sono degli slarghi. Uno è più complicato. Dietro una curva, in un punto stretto ci troviamo di fronte una jeep. Il nostro autista fa di tutto per facilitare il passaggio: si scosta il più possibile verso il margine della pista e si ferma. L’autista della jeep non sa cosa fare. Se viene avanti diritto, sicuramente non passa. L’autista gli fa segno di mettere le ruote di destra fuori dal tracciato. La jeep s’inclinerebbe un po’ e avanzando molto lentamente riuscirebbe a passare. L’alternativa sarebbe fare retromarcia fino a uno slargo, ma fare retromarcia in discesa su una pista sconnessa e con una scoscesa di lato è sicuramente una manovra più difficile. Il guidatore della jeep esita, poi trova il coraggio di inclinare il mezzo e di avanzare. Anche noi riprendiamo il viaggio.Attraversiamo un altroguado piccolo e poco profondo. Se non fossimo stati davanti, non ce ne saremmo neppure accorti.Ancora lava e un altro piccolo lago. Avanziamo verso l’ultimo guado e il capolinea del bus. In senso opposto sta arrivando un camion, che entra nel guado. Anche il nostro bus entra nel guado, ma il fondo sul quale cerca di avanzare non è solido come ci si sarebbe aspettato. Il bus sobbalza e si piega un po’ di lato, dà uno scossone. L’autista sembra preso un po’ alla sprovvista, però governa bene il mezzo e riprende con sicurezza la terra ferma. Scendiamo dal bus e acquistiamo presso il centro informazioni della Riserva la carta dei sentieri.
Il paesaggio che ci circonda è già una meraviglia di colori. Camminiamo su una passatoia di legno, che ci fa superare una zona paludosa di acqua calda e iniziamo a salire lungo la mulattiera verso il Langahraun.Alla bellezza, si aggiunge lo splendore. La mulattiera è tagliata dentro le lucide rocce di ossidiana ed è ingentilita dalla Crotonella alpina, un esile fiore rosa tenue, la cui infiorescenza ha una forma semisferica. Il suo nome scientifico, Lychnis alpina, deriva dal greco Lichnos, lampada. I suoi steli erano usati nei tempi antichi come stoppini per le lucerne. Fanno da sfondo le montagne dai bei colori pastello, dove le diverse tonalità del giallo sono interrotte da strie rosse e brune e da triangoli verdastri. La mulattiera termina davanti a un laghetto, che lambisce un piccolo nevaio. Ora proseguiamo lungo il sentiero, che segue in controcorrente il torrente, che diviso in numerosi rivoli, si allunga nella larga valle glaciale. Alcune pecore, arrivate da chissà dove, brucano l’erba fresca, che cresce sul fondo umido. Una pecora, dal pelo riccio e nero, lascia il piccolo gregge e inizia a camminare sulla parte asciutta del greto del torrente, dove non cresce neppure un filo d’erba. E’ seguita dai suoi due agnelli bianchi. Suoi, come dimostrato dalle leggi della genetica! Uno la segue convinto, l’altro è restio, tergiversa, ma poi richiamato dal belato della sua mamma, lemme, lemme, la segue.
Lasciamo il sentiero per inerpicarci lungo la direzione Vondugil. Immaginiamo di avere da lassù una migliore visione del panorama circostante. Giunti in cima lo sguardo non supera l’orizzonte che avevamo dal basso, tuttavia qui troviamo il posto ideale per il nostro pranzo al sacco. Ci sediamo su una zolla erbosa. Abbiamo ai nostri piedi la vallata chiusa dai dossi dorati e dai brulli crinali, che si stagliano contro il cielo azzurro.Ammiriamo con stupore questo quadro della natura, che sarebbe piaciuto tantissimo anche ai pittori impressionisti.
Una volta scesi nuovamente sul sentiero della valle, lo percorriamo fino alla base delle montagne. Osservando bene un dosso, ci sembra di riconoscere in esso il profilo di un troll. Mitologia e credenze pagane ancora presenti nella cultura islandese avranno preso spunto anche da questi paesaggi incantati.
Torniamo indietro e quando raggiungiamo la deviazione Brennisteinsalda la seguiamo. Il sentiero è inizialmente ripido, poi si allunga in una stretta e fumante valle, dall’aria solforosa, che libera il naso dalle impurità.
Arrivati infine nel piazzale di partenza, attendiamo le ore 18.00 riposandoci al sole e concedendoci una cioccolata calda di nome, ma non di fatto. Alle ore 19.30 rientriamo in campeggio con il volto raggiante per il sole preso e per la gioia che portiamo nel cuore.

UN PASSO INDIETRO (27 luglio)

Lasciamo il campeggio di Leirubakki e, quando siamo sulla R1, svoltiamo a destra. Dopo la sosta tecnica a Selfoss presso il roseo maialino, che si riempie la pancia con i nostri soldi per riempire con il suo cibo poco appetitoso la nostra pancia, abbandoniamo la direttrice principale e ci indirizziamo verso sud fino a raggiungere il mare e da qui, seguendo la litoranea, ci spostiamo lungo la penisola verso ovest. La pausa pranzo coincide con la sosta presso la Strandakirkja, una piccola chiesa di legno, costruita nel 1888, dove un tempo c’era una chiesetta del 1200, edificata per implorare protezione per i pescatori, che rischiavano di naufragare contro la scogliera, sbattuti dalle violente burrasche e dove nel 1696 fu fondata una fattoria.
Entriamo nella chiesa. Il suo soffitto a volta azzurro e punteggiato di stelle invita ad alzare lo sguardo verso il Risorto, che da dietro l’altare sorride benedicendo. Alcuni cicloturisti sono in chiesa, silenziosamente seduti a pregare. Anche noi ci raccogliamo in un momento d’intimità con nostro Signore.
Poi diamo uno sguardo alla scogliera, ora ben visibile, grazie alla bassa marea e al tempo sereno, ma alquanto infida quando è sommersa e sul mare sono calate la nebbia e l’oscurità.
Dopo pranzo ci rechiamo nella zona di Krisuvik. E’ un territorio geologicamente instabile, perché prossimo al rift. E’ tutto ricoperto di colate laviche e cenere. La prima sosta è al lago Graenavatn. La sua forma tondeggiante e le alte rive che lo circondano rivelano la sua origine vulcanica. Infatti, occupa un antico cratere. E’ un grande occhio azzurro nel nero e desolato deserto di lava. Lì vicino c’è una vecchia fattoria abbandonata e semidistrutta.Poco più avanti a Seltún c’è una bella area geotermale. Sostiamo e camminando sulle passerelle di legno, un po’ storditi dall’aria sulfurea, osserviamo l’acqua bollente, che esce dal sottosuolo e le bolle di fango, mentre dal cuore della terra escono borbottii e cupi suoni. Intorno alle pozze i sali minerali depositati, illuminati dal sole, brillano la loro iridescenza. I versanti, che racchiudono le diverse pozze, sono ricoperti di tefrite, cioè dall’insieme dei materiali piroclastici prodotti durante le eruzioni vulcaniche. Il termine tefrite deriva dal greco e significa cenere. E’ un neologismo coniato dal vulcanologo islandese Sigudur Thorarinsson nel 1954, dopo un’eruzione del vulcano Hekla.
Superata l’area geotermale, giungiamo al grande lago Kleifarvatn, che occupa una profonda fossa tettonica. Esso, pur non avendo immissari ed emissari, riesce a mantenere inalterato il suo volume d’acqua. Oggi la sua superficie battuta dal vento sembra quella del mare.
Terminiamo la giornata fermandoci di nuovo al campeggio di Grindavik.

 

QUALCHE GIORNO DI PAUSA (28 – 30 luglio)

Dopo cinquantadue giorni dalla partenza, ce ne concediamo tre di dolce far niente.
Trascorriamo la mattinata a Grindavik passeggiando per la piccola città, tutta dedita alla pesca. Le sue casette di legno, nucleo storico dell’insediamento, risalgono agli anni ’20 del secolo scorso e si affacciano sul porto. Intorno a esse si è sviluppata l’industria conserviera. La parte nuova della cittadina è cresciuta alle spalle della zona industriale ed è costituita da villette in muratura.
Il pomeriggio è di assoluto riposo, così come la sera, allietata dalle voci gioiose dei bambini, che salgono e scendono da un alto arrampichino e non sono mai stanchi di vivere il giorno senza fine. Alle ore 23.00 un bell’arcobaleno scende dal cielo. Chiudiamo gli scuri e... buona notte!
Mentre percorriamo gli 80 km che ci separano da Selfoss notiamo un’indicazione che segnala un punto panoramico. Posteggiamo il camper e ci incamminiamo lungo lo stradello tagliato dentro il campo lavico coperto di muschio giallognolo. Ci sembra di camminare sulla brace ricoperta di cenere. Dopo mezz’ora siamo ancora lontani dal mare e ancora di più dalla scogliera che chiude il golfo. Abbiamo deciso di riposare, pertanto ci accontentiamo di fotografare due grosse pecore che stanno ruminando sulla sponda del torrente al riparo dal vento forte, protette da una zolla erbosa.
La giornata termina a Selfoss, con l’unico scopo di partecipare alla messa domenicale. Il cielo infuocato del tramonto, prossimo al cambio di data, ci augura la buona notte.
Ci alziamo alle ore 9.00. Il campeggio è ancora completamente immerso nel sonno profondo. I fumi dell’alcool lasciano il segno su questa gente che, nonostante i costi proibitivi, nei weekend riversa nelle bottiglie una buona parte dei suoi introiti.
Usciamo per una passeggiatina. La “sgraziata città”, così la definisce la guida, non è più insignificante di molte altre. Raggiungiamo il fiume Hivíta, che abbiamo visto formare la bella cascata Gullfoss. Esso scorre impetuoso nel suo letto, scavato in una colata lavica, che risale a 8700 anni fa.Sulla sua sponda sinistra alcuni crateri del diametro di circa due metri sono ciò che rimane delle bolle gassose,che sono riuscite a liberarsi dalla vischiosità del magma.
Passiamo sotto il grande ponte sospeso. L’attuale è stato costruito nel 1945 in sostituzione del precedente del 1891, che era crollato ed era stato la prima imponente costruzione del Paese. La bianca chiesa protestante, dallo slanciato campanile, si specchia nell’ansa del fiume. Entriamo per una preghiera. Sta iniziandoil servizio, sostiamo sulla porta e dopo un breve momento di raccoglimento ci allontaniamo.
A Selfoss non c’è la chiesa cattolica. La messa è celebrata di domenica pomeriggio presso la sede del club Kivanis International, un’organizzazione no-profit i cui membri si prodigano in opere di carità.La messa è celebrata da un sacerdote irlandese, che risiede nella capitale. Qui in Islanda c’è un solo sacerdote indigeno, i pochi altri sono irlandesi e polacchi. E’ molto bello vedere come ogni famiglia della piccola comunità anima la celebrazione: una famiglia ha portato la croce per l’altare, un’altra i fogli stampati con i canti,c’è chi suona la chitarra, chi intona i canti, chi raccoglie le offerte. Dall’abbigliamento i partecipanti ci sembrano persone di modeste condizioni economiche, eppure nel cestino non mettono spiccioli, bensì carta moneta di un certo valore. Che esempio di corresponsabilità!
Al termine della messa il sacerdote ci saluta personalmente e s’interessa al nostro viaggio, poi ci congeda con un augurio.

IL BIANCO SUD (31 luglio – 4 agosto)

Quando abbiamo pensato al titolo di questo capitolo, non immaginavamo di condizionare la situazione meteorologica. Invece così è accaduto. L’azzurro delle prime ore del mattino si è lentamente sbiancato, diventando prima un sottile velo di nebbia e poi, ingrigendosi un po’, acquerugiola fine. Peccato, perché le nubi incappucciano i bianchi vulcani, che speravamo di vedere. Lasciamo Selfoss e percorriamo la R1 continuando il nostro giro in senso antiorario. Salutiamo ancora una volta il vulcano Hekla, che oggi conferma il significato del suo nome: incappucciato. La strada si snoda parallela alla costa, ma un po’ all’interno, in una zona pianeggiante, punteggiata di pascoli e fattorie e solcata da numerosi corsi d’acqua. Oltre all’allevamento ovino e a quello equino, c’è anche l’allevamento bovino formato da mucche con diversi mantelli.
Dopo una ventina di chilometri un’altra cascata si mostra in lontananza. La raggiungiamo e la sosta è d’obbligo. Si tratta della cascata Seljalandfoss. La sua acqua precipita da un fronte piuttosto stretto, con un salto diritto. La nube di umidità, che forma, volteggia nell’aria e la fa sembrare più imponente di ciò che è in realtà. Riprendiamo il viaggio, ora il territorio è più impervio, stretto tra la costa e le pendici del vulcano Eyjafjöll, il cui cratere è ricoperto da un ghiacciaio. Questo è il vulcano che nella primavera del 2010 con la sua eruzione ha causato il blocco aereo in Europa. Infatti, l’acqua ottenuta con lo scioglimento del ghiaccio a contatto con il magma incandescente, lo ha solidificato sotto forma di cristalli, ma mentre una parte è rimasta a terra, un’altra considerevole parteè stata espulsa con forza. La nube di cristalli ha raggiunto la ragguardevole altezza di 13 km, minacciando l’incolumità degli aeroplani.
Deviamo leggermente e raggiungiamo la cascata Skogafoss. Un muro d’acqua dipinge di bianco la concava parete rocciosa.Ci avviciniamo e la solita nube di goccioline ci investe. Mediante una lunga e ripida scalinata superiamo i 70 metri del salto e raggiungiamo la terrazza panoramica. Fatica non sprecata. Infatti, alle spalle della terrazza il sentiero si allunga sull’altopiano.Ammiriamo la bellezza di questo breve fiume, che dal ghiacciaio del vulcano, scorre verso il basso agitandosi in profonde pozze, insinuandosi tra i massi erratici ricoperti di verde muschio e formando rapide e cascatelle.
Un’ultima deviazione la facciamo per raggiungere l’alta scogliera basaltica di Dyrhólaey. Sulle sue scure colonne nidificano i puffin, che un po’ vanitosi, si mettono in posa. Giuseppe fotografa a raffica e li coglie fermi, in volo, che tornano da una proficua pesca, che si fanno compagnia.
In basso le onde imbiancano la nera sabbia e urlano sbattendo contro la dura roccia, ben sapendo che col tempo vinceranno la sua resistenza. Archi, faraglioni e isolotti ornano questo angolo incantato.

 

Ritorniamo sulla R1 e sostiamo nel campeggio di Vik, alla base di una possente e incombente parete rocciosa.
Partiamo da Vik e continuiamo a dirigerci verso oriente. Anche oggi il bianco sud ci sta tradendo. Le belle montagne ricoperte dai ghiacciai si tengono addosso la spessa coltre di nubi biancastre. Il territorio che attraversiamo è però interessante. Si susseguono diverse zone chiamate sandur. Sono immense distese di sabbia e materiale lavico, formatesi con le eruzioni vulcaniche avvenute sotto la calotta glaciale e poi portati a valle dalle colate. Un tempo i sandur erano delle verdi pianure, protese verso il mare, punteggiate di laboriose fattorie. La fine di questi bucolici luoghi avvenne nel giugno 1783. Numerose scosse sismiche furono seguite da un’impressionante eruzione, che riversò sulla pianura lava, acqua e fango. Si contarono diecimila vittime, la moria di quasi tutto il bestiame e la totale perdita dei terreni agricoli.
I fiumi, sconvolti dagli esiti del fenomeno endogeno, hanno dovuto ridisegnare il loro percorso. Dividendosi in una miriade di rivoli, hanno affidato a ciascuno di essi il compito di raggiungere il mare. Qualcuno gira ancora invano nella pianura, formando piccoli stagni. Altri si uniscono tra loro, nella convinzione che l’unione fa la forza, e insieme scorrono con maggiore corrente, altri precipitano dentro gli inghiottitoi e si muovono nascosti sotto lo strato roccioso, pronti a riemergere più avanti, appena trovano un varco. Alcune aree di queste vaste zone sono soggette a un’opera di bonifica. Per evitare che i forti venti, soprattutto invernali, portino la sabbia bagnata sulla strada, alcuni sandur sono stati piantumati con arbusti e conifere.
La sosta pranzo la facciamo in un’ariosa area pic-nic. Il tempo è migliorato. Un’occhiata di sole si fa largo tra le nubi e ci ricorda che, nonostante le apparenze, il cielo è azzurro. Da qui abbiamo una prima visuale sui ghiacciai. Osserviamo in lontananza il lungo fronte dello Skeidararjökull, che con la sua lingua ha plasmato la vallata in cui ci troviamo. Più lontano i ripidi seracchi di altre lingue glaciali sembrano grandiose cascate di ghiaccio.
Superiamo il fiume dell’ultimo sandur, lo Skeidarársandur, transitando su un lungo ponte di legno, a un’unica corsia e con degli slarghi per gli incroci. Poi in un’area di sosta conosciamo la storia del ponte di legno. Alla fine di settembre 1996 il vulcano Grimsvötn, che sta sotto la calotta del ghiacciaio Vatnajökull iniziò a eruttare. Sotto la calotta si formò un lago. Quando la calotta collassò nel lago, a causa di un terremoto di magnitudo 5,5 della scala Richter: acqua, fango, materiale lavico e iceberg fuoriuscirono e si riversarono a valle. La devastante alluvione travolse tutto e fece crollare anche i ponti. Il ponte attuale, che è provvisorio, è stato costruito in parti separate, così da poter essere sostituite in caso di necessità.
Nelle prime ore del pomeriggio ci fermiamo nel camping del Parco nazionale di Vatnajökull. Il Parco Nazionale, prende il nome dal grande ghiacciaio che lo sovrasta. Questo ghiacciaio è il quarto per estensione nel mondo. Arriva dopo la calotta Antartica, che detiene il primato, seguita da quella che ricopre l’85% del territorio della Groenlandia e dal ghiacciaio della Patagonia.
Ci rechiamo al centro visitatori e acquistiamo la carta dei sentieri. Poi nella sala proiezioni seguiamo il filmato, che illustra alcune caratteristiche del Parco, la cui estensione occupa il 14% del territorio islandese. Il ghiacciaio Vatnajökull è stato meta di esplorazioni già nei secoli passati. Testimonianze storiche dicono che già nel XVI secolo era stato esplorato. Il primo uomo che lo attraversò in dodici giorni fu Páll Pálsson nell’estate del 1875. Il filmato termina con le terribili immagini dell’alluvione 1996.
Dalla calotta del Vatnajökull scendono lunghe lingue glaciali, separate tra loro da possenti crinali basaltici. Ogni lingua è talmente grande, che può essere considerata un ghiacciaio, perciò ha un nome proprio.
Dal centro visite seguiamo il facile sentiero S1 e raggiungiamo il fronte dello Skaftafellsjökull. La grigia parete di 40 metri del suo fronte libera nel lago, che le sta davanti, parte del suo ghiaccio. Il forte suono dell’acqua in movimento attira la nostra attenzione. Ci avviciniamo alla riva della destra idrografica per vedere la bocca del ghiacciaio. Essa è però celata da un’alta morena. Osserviamo il fiume che esce da essa e che s’immette veloce e limaccioso nel lago, sospingendo gli icebergs verso la sponda opposta. Il lago ha una forma a semiluna: è chiuso fra il fronte del ghiacciaio e la morena frontale, dove una volta arrivava la lingua. E’ profondo quanto una volta era lo spessore del ghiaccio. Anche in Islanda è avvertito il cambiamento climatico tendente al caldo. Nel centro visitatori le fotografie del 1925 e del 2012 sono eloquenti.
Davanti ai nostri occhi c’è una bellezza incomparabile. C’è tanto da fotografare e il desiderio di ricordarci qui, ci fa appoggiare la fotocamera su un macigno piatto per ritrovarci insieme in un autoscatto.
Anche il tempo è propizio. Uno squarcio nel cielo ci dona qualche raggio dorato, che fa brillare questo paesaggio di cristallo. Ci avviciniamo alla riva del lago e, camminando sui sassi, iniziamo a percorrere il suo perimetro. Gli icebergs sembrano cambiare forma e colore secondo la prospettiva ottica. Così l’iceberg che sembrava massiccio, assume una forma più sinuosa e slanciata visto da un’altra angolazione. Quello che era nero di lava in un lato, è azzurro visto da dietro. Quello che era denso, diventa trasparente, se osservato diversamente. Una magnificenza! Ci sono poi gli icebergs che stanno finendo la loro vita. Ormai prossimi alla riva affogano nell’acqua, che con il suo sciabordio penetra dentro ogni loro fessura, facendoli scricchiolare di dolore, mentre la nenia del vento li culla assopendo il loro lamento.
Fa freddo, eppure tra questi sassi riescono a fiorire alcune pianticelle erbacee. Le tante stelline gialle della Borracina acre sono attaccate a un esile e strisciante fusto.
Tornando verso il campeggio, mentre Giuseppe fotografa un filo d’acqua che scende lungo una profonda fessura, Paola osserva le rocce e ancora una volta gli scuri anfratti e i rilievi disegnano davanti ai suoi occhi i volti grossolani dei troll. Questi visi arcigni sembrano confermare le leggende, che narrano della loro pietrificazione in seguito ai cattivi comportamenti, che hanno avuto. Guidati dalla mappa dei sentieri, iniziamo la gita sullo Skaftafellsheidi, la montagna che chiude la destra idrografica del ghiacciaio, che abbiamo raggiunto ieri. Una ripida mulattiera, che ci ricorda il muro di Sormano, ci conduce in quota, poi il sentiero scende fino a una cascata, senza nome e guardata a vista da un altro troll pietrificato. Qualche fotografia e ancora quattro passi fino a una malga. Da qui lo sguardo spazia sul sottostante sandur intagliato dal labirinto acquoso e si allunga fino al ghiacciaio Skeidararjökull, chiuso lateralmente dalla lunga e dentellata catena montuosa Eystrafjall. Riprendiamo il cammino, saliamo lungo un ripido e sassoso sentiero fino al punto panoramico Sjónarsker, dove l’orizzonte verso il ghiacciaio lontano si allarga. Altre foto e poi la ripida discesa fino al bivio, dove prendiamo il sentiero che conduce verso la cascata Svartifoss. Ci addentriamo in un ambiente boscoso di betulle nane. L’acqua della cascata Svartifoss salta da una piccola bocca e si allarga verso il basso come un velo da sposa. E’ abbracciata da una semicirconferenza di colonne basaltiche. Ai suoi piedi i tanti turisti alzano lo sguardo stupito verso quel fiotto bianco, lo stesso sguardo dell’uomo nero della fontana che sorge in piazza Grandi a Milano. Fontana, che fu inaugurata nel 1936 in onore di Giuseppe Grandi, lo scultore che aveva ideato e realizzato l’obelisco di piazza Cinque Giornate. Proseguiamo la nostra gita. Un altro sentiero trasversale taglia con dei sali e scendi il dosso. Le zone umide sono attrezzate con passerelle di legno per salvaguardare la vegetazione. Olezzano di fungo e uno dal cappello marrone si fa notare ai margini del sentiero. Appartiene alla famiglia dei boleti, ma non sappiamo se è mangereccio. Dove il prato diventa arido, vicino ai sassi è in fiore il Caglio zolfino, un’esile pianta erbacea dai piccoli fiori gialli. Il suo nome ha origini antiche. Infatti, il medico botanico farmacologo greco Dioscoride Pedanio, che esercitò la sua professione a Roma ai tempi dell’imperatore Nerone, usava gli estratti di questa pianta per far coagulare il latte e produrre il formaggio. Tra gli argentei cespugli del salice lanoso le umili campanule danno un tocco di colore.
L’aria fredda e l’assenza del sole non consentono all’umidità della notte di disperdersi. I prati e le foglie degli arbusti rimangono imperlati da innumerevoli e minuscole gocce d’acqua. Sono le ore 13,00 quando giungiamo a Eystragil, il punto panoramico sul ghiacciaio Skaftafellsjökull. Tanti gitanti stanno già consumando la loro colazione al sacco. Anche noi sostiamo e pranziamo. Abbiamo ai nostri piedi la lunga lingua glaciale con il suo laghetto pieno di icebergs. Oltre la montagna, che ci sta di fronte, il ghiacciaio Svínafellsjökull si fa conoscere con il suo orlato fronte.
Nel pomeriggio saliamo lungo il sentiero che segue dall’alto la lingua glaciale dello Skaftafellsjökull fino al punto panoramico Sjónarnipa. Nuova sosta e ancora tante fotografie. Il percorso di rientro al campeggio lo facciamo lungo un ripido sentiero, un po’ faticoso per chi come noi ha le articolazioni delle ginocchia un po’ dolenti, ma bello perché intagliato nel bosco. Al nostro arrivo si alzano in volo o si nascondono nel lussureggiante sottobosco gli scriccioli, piccoli uccelli dal corpo tondo e dalle lunghe penne caudali, di colore castano sul dorso e più chiari nella parte ventrale. Un’antica leggenda celtica fa di questo piccolo volatile il re degli uccelli. Essa narra che sarebbe diventato re degli uccelli, quello che avrebbe volato più in alto di tutti. Il piccolo e furbo scricciolo si nascose tra le penne dell’aquila e quando questa superò in altezza il volo di tutti gli altri uccelli, lo scricciolo uscì dal suo nascondiglio e si librò ancora po’ più in alto. Divenne così il re degli uccelli.
Il tempo passa e qui al nord si sta avvicinando la notte polare, qualche ora crepuscolare c’è nel mezzo della nostra notte. Durante la mattinata ci spostiamo di qualche chilometro e sostiamo ai piedi di un altro ghiacciaio, il Breidamerkurjökull. Il sole illumina i crinali dei monti che lo contengono e in lontananza la sua cupola. Davanti al suo lungo fronte c’è un piccolo lago quasi interamente ricoperto di icebergs. Qualche stella di ghiaccio è spinta sui ciottoli della riva e brilla con tutto il suo splendore cercando di resistere più che può al caldo della giornata. Caldo per il ghiaccio, non certamente per noi! Infatti, è da poco passato mezzogiorno e la temperatura è di solo 8°C. Di fronte a questa meraviglia del creato pranziamo. Un piatto di spaghetti e dei mirtilli soddisfano il nostro appetito.
Ripartiamo e dopo cinque chilometri ci fermiamo. Un’altra lingua del medesimo ghiacciaio libera nel lago Jökullsarlón blocchi di ghiaccio, ancora più belli. Sono molto più grandi rispetto a quelli visti finora, hanno sfumature turchesi, che si specchiano nell’acqua limpida. Le sterne artiche intrecciano voli e si tuffano in picchiata nelle gelide acque ricche di pesce, per riemergere subito dopo con il bottino nel becco. E’ un assordante stridio quello che emettono in continuazione. Ci incantiamo a osservarle, ma allo stupore non c’è limite. Ecco far capolino a pelo d’acqua qualcosa di scuro. Sembra un sasso. Non lo è, si muove! E’ la testa di una foca. Si gira, sembra guardarci! Nuota. Vicino a lei altre teste emergono. Le foche nuotano silenziose. Il loro corpo si muove sinuoso, poi s’immergono. Attendiamo di rivederle. La loro apnea si prolunga, poi all’improvviso eccole ricomparire in un'altra zona del laghetto.
C’è alta marea nel mare, il fiume non riesce a defluire e gli icebergs sono trattenuti dentro il laghetto. Camminiamo sulla sua riva. Secondo la prospettiva gli icebergs assumono aspetti diversi. Alcuni sembrano sagome di animali. Uno assomiglia a un cigno, un altro a un anatroccolo, altri due sembrano una megattera e il suo cucciolo. Ce n’è uno che sembra un cagnolino e via di fantasia... ci sarà anche il troll di ghiaccio? Certo! Basta avere pazienza nell’osservare e un po’ o forse tanta immaginazione. Gli icebergs con la loro stratificazione conservano dentro la storia della calotta glaciale. Alcuni stanno terminando la loro vita nel lago. Sono diventati trasparenti. La natura non si fa mancare nulla e si regala una manciata di diamanti! Giuseppe ne prende uno e lo mette al dito di Paola: una rinnovata promessa d’amore, totalmente ricambiata.
A disturbare l’incantevole paesaggio ci sono dei gommoni e dei mezzi anfibio, che girano per il lago, portando i turisti danarosi a vedere velocemente, ciò che si può già ammirare con calma dalla riva. Queste forme di sfruttamento turistico rischiano col tempo di autocondannarsi. Quale impatto avrà l’inquinamento provocato da questi natanti sull’ecosistema del lago? Se proprio bisogna navigarlo occorre muoversi con scafi a impatto zero, come le silenziose canoe.
Torniamo al camper, che abbiamo posteggiato prima del ponte. E’ affacciato al mare. Le ore sono trascorse e la marea si è invertita. Ora il fiume scorre veloce verso la sua foce e porta con sé alcuni icebergs. Li osserviamo scendere. Essi ruotano su se stessi, spinti dai gorghi del fiume, sembrano danzare. Giunti al mare, per prendere il largo, devono superare la barriera dei flussi e riflussi del moto ondoso. Alcuni riescono nell’impresa e si allontanano. Li seguiamo con lo sguardo fino a perderli di vista. Altri con la prima ondata sono spiaggiati e come grosse meduse lentamente evaporeranno. Altri ancora, hanno una fine più drammatica. Sbattuti sul nero litorale, sono ripresi dal mare e di nuovo rigettati a riva fino alla loro frantumazione.
Sono trascorse già molte ore pomeridiane, dobbiamo ripartire, perché abbiamo ancora un po’ di strada da percorrere prima di giungere a Höfn, la cittadina dove trascorreremo la notte. Ora il grande ghiacciaio si cela dietro delle alte propaggini rocciose incombenti sulla strada e sul mare. Poi ricompare in lontananza, mentre il mare è separato dalla terra ferma da un’ampia laguna. Il territorio è un po’ più popolato. Alcune fattorie sparse nel verde rappresentano bene la nota poesia di Aldo Palazzeschi: “Tre casette dai tetti aguzzi/ un verde praticello/ un esiguo ruscello...”. Un cartello stradale di pericolo segnala che nei prossimi dieci chilometri è possibile incontrare le renne. “Magari fosse vero!” esclama Paola. Il suo desiderio è presto soddisfatto. Poco più avanti troviamo ferme sul ciglio della strada alcune automobili. C’è una renna che bruca in un prato. Anche noi ci fermiamo. Non si può tralasciare il ricordo di questo animale artico!
Höfn era un borgo di pescatori, sorto sui sedimenti glaciali accumulati nei secoli. Essi hanno separato il mare dalla terra ferma formando una stretta e lunga laguna. Höfn occupa la posizione centrale in questa laguna. Nel tempo la cittadina è diventata il principale centro della zona sud orientale.
Nella notte è piovuto e questa mattina c’è la “scighera”, la nebbia grassa, condensata come aerosol, che noi milanesi conosciamo bene. Ben equipaggiati, usciamo dal campeggio e ci dirigiamo verso il porto. C’è poco da vedere a causa del tempo, tuttavia la passeggiatina lungo il sentiero sul mare ci fa iniziare bene la giornata. Il mare della laguna è lattiginoso. In queste ore di bassa marea ha in parte scoperto il suo fondo e i piccoli trampolieri vermicoli ne approfittano per fare colazione.
Visitiamo il piccolo museo marittimo, allestito in un vecchio capannone, una volta usato per l’essicamento del pesce. Ci sono in mostra alcune barche e le attrezzature marinare del XIX e XX secolo. Su una scogliera ricostruita sono appollaiati, imbalsamati, i gabbiani delle numerose specie, che qui nidificano.
Rientrando verso il camper in un negozio di artigianato locale completiamo l’idea avuta per i nostri amici.
Nel pomeriggio con uno spostamento di un centinaio di chilometri ci dirigiamo a Djupivogur.

 

LENTAMENTE VERSO L’IMBARCO (5 – 9 agosto)

Siamo nella zona dei fiordi orientali e con brevi spostamenti risaliamo verso nord e... verso l’imbarco. Prima di metterci in moto facciamo quattro passi nel borgo di Djupivogur, piccolo ma grazioso. Esso è arroccato sulla scogliera della punta del fiordo Berufjördur. I primi uomini che hanno utilizzato questa insenatura naturale sono stati dei mercanti tedeschi nel 1589. Il primo insediamento stabile risale al 1850 ed è rappresentato dal lungo caseggiato rosso, ristrutturato un secolo dopo. Esso si affaccia sul porticciolo, dove sono ormeggiati diversi pescherecci. Lungo il molo, un’industria conserviera dà lavoro a molti abitanti. Sulla punta del fiordo il basso faro arancione cattura la nostra attenzione. Decidiamo di raggiungerlo. Lasciamo il porticciolo e seguiamo la via che costeggia il fiordo. Lungo la strada, una casa bizzarra ci fa sostare. E’ abitata da un artigiano del legno e della pietra ed è allestita non solo come bottega, ma anche come un piccolo museo. All’interno di alcuni gabbiotti di legno ha in mostra pietre, minerali e qualche fossile, oltre a dei teschi di diversi animali e scheletri. Uno scheletro appartiene a un delfino, un altro a una foca. Nel giardino c’è lo scheletro di un iperodonte, un cetaceo lungo circa 10 metri, dalla forma slanciata, che ha il suo habitat nelle fredde acque subartiche.
Più avanti, dove la strada ha termine, c’è un altro molo. Sul suo margine è stato posto un particolare monumento. Sopra dei cubi ci sono delle enormi uova di pietra. Riproducono in grande, ma rispettando la forma e le proporzioni, quelle degli uccelli presenti in questa zona. Le forme sono davvero curiose. Alcune uova sono quasi sferiche, altre sono molto oblunghe, altre hanno un polo molto appuntito e uno alquanto tondeggiante, infine ci sono quelle che hanno la forma più classica.
In cima al molo è ancorata la nave da crociera Orion di National Geographic.
Il faro, che sembrava prossimo, è invece più lontano e irraggiungibile, perché sorge su un isolotto. Dove la strada ha termine, torniamo indietro.
E’ l’ora del caffè. Ci diamo la carica e partiamo.
Non siamo ancora sul fondo del fiordo, un’indicazione di area pic-nic “del cuore”, cioè turisticamente interessante, ci invita alla sosta. Siamo a Fossárdalur. Breve deviazione su uno sterrato. Posteggiamo il camper davanti a una profonda pozza alimentata da una cascata. Poi proseguiamo a piedi lungo la strada che sale fin sopra la cascata. Con una camminata di un chilometro e mezzo giungiamo nella valle glaciale, solcata dal fiume che poi precipita nella forra. In questo luogo fuori dal mondo una fattoria ha trovato il suo mondo.
Torniamo al camper, pranziamo e riprendiamo il viaggio. Il territorio che attraversiamo è aspro e selvaggio La strada costeggia il fiordo. Con le sue ripide salite e discese e le curve sembra il tracciato di un otto volante. In basso sul mare osserviamo all’opera i pescherecci indaffarati intorno ai bacini di allevamento del pesce. Sono assediati da stormi di gabbiani. In prossimità della costa diverse colonie di uccelli acquatici vivono tranquille. Tra le specie riconosciamo le oche selvatiche e gli edredoni.
Stiamo percorrendo la R1, la principale strada islandese, quella che percorre tutto il perimetro dell’isola. Ci aspettavamo un’ampia strada e l’aspettativa è stata subito disattesa dopo i primi chilometri percorsi ormai tanti giorni fa. Scoprire che un suo tratto è ancora sterrato è davvero sconcertante! A Breiödalsvik abbandoniamo la grande direttrice e continuiamo a seguire la costa dei fiordi.
Nel nostro viaggio non abbiamo ancora incontrato la nebbia fitta. Ecco che anche questo evento meteorologico entra nei nostri ricordi. Essa grava sul mare e si alza fino alla strada opacizzando il paesaggio e riducendo notevolmente le visibilità. Accorciamo il tragitto, tagliando l’ultimo tratto di strada attraverso il tunnel che in sei chilometri ci fa raggiungere Reydarfjödur, dove sostiamo nel suo piccolo campeggio.
La cittadina di Reydarfjödur deve il suo sviluppo a una grande azienda produttrice di alluminio, che ha scelto questo fiordo per installare il suo impianto. Noi siamo arrivati in questo centro abitato, perché è presente un convento francescano, dove si celebra la messa domenicale.
Dal campeggio saliamo fino al convento. Una bella chiesetta di biondo legno, costruita con i tronchi incavati e incastrati tra loro, è la casa del Signore. Accanto c’è la casa dei frati e sul sagrato un socievole cane, che fa festa a tutti e si accontenta di qualche carezza. Giuseppe gli dona doppie coccole, così Paola riesce a scansarlo.
Nel pomeriggio ci dirigiamo a Egilsstadir. Dopo una breve salita, attraversiamo una valle glaciale circondata da ripide montagne, tutte intagliate da torrenti. La sosta a Egilsstadir risolve due problemi: la spesa e il bucato.
E’ mattina. Mentre ci prepariamo per la partenza, un signore islandese si avvicina a Giuseppe e gli chiede se può fotografare il nostro camper. Dice che gli piace molto e s’informa sul costo, sulle sue prestazioni e le sue qualità. Con la calcolatrice in mano converte gli euro in corone islandesi e ci dice che le tasse d’importazione graverebbero notevolmente sul costo totale. E’ simpatico e cordiale, parla un misto d’inglese e islandese. E’ difficile comprendere tutto quello che dice, ma con dei bei sorrisi e qualche accenno di consenso lo accontentiamo. Si congeda da noi augurandoci un buon viaggio di ritorno.
Nelle prime ore del pomeriggio ci dirigiamo a Seydisfjördur, ultima tappa della nostra bellissima vacanza. Per raggiungere la base del fiordo bisogna valicare la montagna che separa la vallata di Egilsstadir dal fiordo. Una ripida salita ci porta sull’altopiano, costellato di pozze e laghetti alimentati dai nevai ancora presenti sui pendii. Quasi al termine dell’altopiano l’abbondanza di acqua è raccolta in un grande lago artificiale, la cui diga è stata costruita con materiale naturale.
Il campeggio di Seydisfjördur non ha molto spazio per le roulotte e i camper. Ci sistemiamo in una posizione abbastanza confortevole, poi ci sgranchiamo le gambe con una passeggiatina per il paese. Vediamo innanzitutto la zona dell’imbarco e prendiamo nota dell’ora del check-in. Seydisfjördur è un piccolo villaggio dall’aspetto pittoresco. La sua azzurra chiesetta è circondata da belle case di legno colorate con colori vivaci.
Come trascorrere due intere giornate a Seydisfjördur, che è molto più piccolo del nostro quartiere? La prima inizia con una lunga dormita. Ci alziamo alle ore 9.00. Di mattina, dopo un giretto per il paese, ci dedichiamo alla cura del camper. In previsione dei due giorni sedentari, che trascorreremo sulla nave, di pomeriggio ci incamminiamo lungo la strada sterrata della costa settentrionale del fiordo. In lontananza si vede il suo sbocco nel mare aperto. Certamente non arriveremo alla punta, perché per raggiungerla dovremmo percorrere circa 30 km. La strada è leggermente ondulata, segue l’inclinazione dei dossi delle brulle montagne che scendono ripide verso il mare.
E’ un lungo addio. Il nostro procedere silenzioso è osservato dagli sguardi miti di alcune pecore e di un tenero e candido agnellino, che come i bambini è fiducioso e si lascia avvicinare, poi segue la sua mamma che belando lo richiama e gli fa raggiungere il culmine alto del prato. Più avanti le sterne ci avvistano, ma il loro non è un saluto cordiale. Si alzano in volo e con acute strida ci minacciano, scendendo in picchiata sopra le nostre teste. Ci copriamo il capo con i cappucci impermeabili delle nostre giacche a vento sperando di non essere colpiti né dai loro becchi, né dai loro bombardamenti.
Superata questa problematica zona, troviamo su un pianoro i resti di un antico insediamento sorto presso un bel torrente, che esce da una forra stretta e poco profonda. Ci inoltriamo nel sentiero che costeggia il torrente fino in prossimità della cascata. Poi proseguiamo lungo la sterrata. I due grossi corvi che ci sorvolano sono troppo occupati a litigare tra loro per accorgersi della nostra presenza. Poco più avanti, dove la costa è più pianeggiante, una colonia di oche selvatiche sonnecchia al sole. Giuseppe si avvicina. Due starnazzano allarmate. Le altre si svegliano, si alzano sulle zampe. Una si sgranchisce aprendo le ali. Un’altra si guarda intorno e si accovaccia di nuovo. Le altre lentamente si allontanano scodinzolando. Ancora più avanti un piccolo ovile offre un bel primo piano avendo come sfondo l’apertura del fiordo. In basso su uno scoglio due beccacce ci salutano con il loro fischio, poi si alzano in volo.
Abbiamo già percorso cinque chilometri, l’aria si è rinfrescata e qualche nuvolone nero compare nel cielo. Decidiamo di tornare indietro.
Il nostro ultimo giorno islandese inizia come ieri, con una prolungata dormita e il breve giretto mattutino nel borgo, che ci offre lo scorcio adatto per la fotografia che chiuderà il nostro reportage.
Nel pomeriggio, incoraggiati da un po’ di azzurro, che si fa largo tra i neri nuvoloni, iniziamo la passeggiata lungo la sterrata della costa meridionale del fiordo. Purtroppo dopo un paio di chilometri il tempo ci tradisce. Torniamo sui nostri passi. Quando siamo di nuovo in paese, ci sentiamo presi in giro, perché il tempo cambia nuovamente e volge al bello. Allora ciondoliamo per le viuzze colorate e ci soffermiamo a osservare i particolari delle case e dei giardini. Seydisfjördur si è sviluppata intorno alla metà del XIX secolo con l’arrivo dei norvegesi, attirati dai banchi di aringhe, che avevano abbandonato i fiordi occidentali. Ora la pesca non è più la risorsa principale di questo paesino. Il piccolo centro vive soprattutto di turismo.

ADDIO ISLANDA (10 agosto)

Alle ore 11.00 la Norröna si stacca dal molo di Seydisfjördur.
Islanda siamo arrivati nel pieno della tua estate polare e ti lasciamo quando i tuoi giorni stanno velocemente scivolando verso l’inverno. Ora la tua temperatura è molto più fredda e anche per te c’è qualche ora di buio.
Sei stata per noi una continua scoperta, dove tutto era esagerato.
Ai colori sfavillanti di Landmannlaugar si sono contrapposte le nere sabbie di Dyrhólaey. Sulle tue scogliere i pacifici puffin e i gabbiani urlatori e sui tuoi stentati prati i simpatici chiurli e le aggressive sterne hanno incantato il nostro sguardo cittadino. Il tramonto infuocato di Selfoss e il giorno senza fine dei fiordi occidentali, il suolo bollente di tante zone e i tuoi immensi ghiacciai protesi fino al mare, ci hanno fatto vivere momenti nuovi e sconosciuti. Le tue imponenti cascate e le aride distese laviche, le brulle montagne, suddivise in strati sovrapposti e il tenace lavoro degli agricoltori, che hanno reso fertile il tuo suolo sterile, tutto ci ha insegnato il valore del tempo.
Islanda addio, i tuoi immensi spazi e la generosa disponibilità della tua gente, ci hanno fatto riscoprire i nostri grandi spazi interiori.
Torniamo a casa con una rinnovata gioia di vivere.